Sulla catastrofe

Prima di dare qualche spunto di riflessione sul tema del mese, mi sembra opportuno raccontare l’evento scatenante della scelta del tema. Non avevamo le idee chiare e si era indecisi su temi più tecnici o formali come “atmosfere”, “gesti”, o “il colpo di scena”, “punti di svolta o di rottura”, pensavamo a come continuare la narrazione di quest’anno su “a cosa servono le storie” e ci concentravamo su particolari forse troppo astratti, cioè troppo isolati rispetto all’esperienza concreta. Poi a cena mentre chiacchieravamo ci siamo ricordati di un episodio divertente, di quando durante una recente partita di calcio un ragazzo, Francesco, riceveva un passaggio filtrante, e si trovava libero, vicino l’area avversaria; l’azione era tesa ad un unico sviluppo: il tiro in porta. Risultato finale: un liscio clamoroso, con gamba in aria, gemito goffo e palla che rotola via indifferente ed intatta. Quel ricordo comico capitava a fagiolo, proprio lì “cascava l’asino” insomma. Ed ecco scelta la parola chiave: la catastrofe.

Il “liscio”, il colpo fallito, la caduta, da Adamo a Fantozzi, permea la vita dell’uomo e le sue storie, che non avrebbero sapore e vita senza il costante pericolo della rovina. L’oggetto in questione è piuttosto grosso: si può parlare generalmente di fallimento, caduta, di movimento verso il basso di qualcosa che “non regge più”, come suggerisce il prefisso “katà”. Si può parlare, ancora più in generale e senza connotazioni negative, del “voltarsi” (“strofein”), del cambio di punto di vista e si potrebbe parlare della catastrofe come conversione.
Gli scrittori hanno dimestichezza con le catastrofi. Le storie infatti hanno un ritmo spesso segnato dalla catastrofe: può essere all’inizio (il peccato di Adamo, il risveglio di Gregory Samsa ne Le metamorfosi, l’apocalittico mondo de La strada di McCarty…), può essere il “colpo di scena” centrale (ne è pieno I promessi sposi, i romanzi e i fumetti a puntate, le serie televisive…), o può essere un punto di convergenza finale (la caduta di Gollum e di Sauron ne Il Signore degli Anelli) che magari apre ad una nuova ripartenza (il terremoto in America oggi di Altman, la pioggia di rane in Magnolia di P.T.Anderson).
Ma cosa accomuna fallimento e riscatto nella parola catastrofe? Proprio il suo significato più letterale: “capovolgimento”. Esso ovviamente può avere infinite “gradazioni”, può essere shock, follia, sovversione, genialità, rivoluzione, dubbio, peccato, lampo di genio, crisi, conversione, l’essenziale è che l’inversione sia subitanea, dirompente e tragica (e quindi inevitabilmente comica).

La catastrofe vive nell’attimo, quello è il tempo anche della comicità: raccontare in un’ora (o qui in qualche riga) un attimo comico non riesce a trasmetterne la vera intensità. L’istante è il luogo del riso e del pianto, della qualità del kairos che emerge dalla quantità del kronos. Poi la costellazione di istanti catastrofici segna il senso (o meglio il “sugo”?) della Storia e delle storie nella loro “evoluzione”, cioè nel loro continuo voltarsi e rivoltarsi. Interpretare le catastrofi è fondamentale per cogliere la trama delle storie, ma qui sorge un dubbio: può esistere una trama fatta di catastrofi continue? Quante catastrofi può sostenere una storia?
Comunque la si voglia leggere, la catastrofe è un “punto di rottura” in cui una qualsiasi continuità identica a se stessa frana e cede d’improvviso, in cui una struttura si smonta, e proprio da questo “punto a capo” nasce una narrazione che si volge verso altrove: la catastrofe chiude una storia e ne riapre un’altra. Ogni catastrofe sarebbe dunque una sorta di nuova creazione ex nihilo, un paradossale rinnovarsi dell’originario… ma ancora emerge un dubbio: la catastrofe può essere parte dell’ordine naturale delle cose? Che ordine sarebbe mai questo? La domanda risuona delle parole di Giobbe.

Per essere una cesura, la catastrofe deve essere “di-rompente”. In primo luogo rompe l’armonia e l’equilibrio del soggetto. Cadere, lisciare il pallone, ci rende divisi (l’intenzione era di colpire il pallone, ma la gamba va per un’altra strada), ci destabilizza. Non è un caso che nella teologia cristiana il termine peccato corrisponda al greco amartìa che significa “sbagliare la mira, mancare il bersaglio”. La scissione dell’io è fondamentale per la narrativa occidentale, soprattutto dal Cristianesimo in poi. Il soggetto consapevole e padrone di sé è svuotato, scisso, torto, e la sua volontà si divide: “e tu, Signore … mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi” (Confessioni, VIII 7.16).

Questo ci porta all’anima viva della catastrofe: la catastrofe è tragica. Ogni volontà è disattivata, ogni sforzo è vano. Nella catastrofe tragica gli eventi “precipitano”, come nel finale dell’Amleto, in cui in poche pagine si accetta e si inizia il duello (senza tanta convinzione), la regina beve dalla coppa sbagliata, le spade si scambiano per errore, quando entrambi i contendenti stanno per morire Amleto uccide finalmente Claudio, ed intanto irrompe sulla scena Fortebraccio, personaggio fino ad allora marginale. È un vero e proprio climax discendente, una raffica finale in cui tutto “cade” e niente regge più, ogni piano viene disfatto. Nella catastrofe l’azione non è più governabile, come dice John Malcovich, in Les Liaisons Dangereuses, “It’s beyond my control”: vittima della sua stessa natura non può che lasciare la donna che ama, e che continua ad amare al di là di ogni controllo. Il suo dramma nasce dal conflitto di due catastrofi, l’innamoramento (fattore esterno) e la sua natura fredda e vanitosa (fattore interno), ed evidenzia forse il nocciolo del problema: la non-intenzionalità della catastrofe. Essa ci scuote e mette in discussione la nostra libertà e comprensione, gettandoci il guanto di una sfida che rimane aperta, da raccogliere.

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