Esercitare, esercitar-si

Esercito è sia un sostantivo che un verbo. Come sostantivo mi ha sempre affascinato, sin da quando da bambino giocavo “alla guerra” e la parte più bella della battaglia era quella che precedeva lo scontro armato, cioè la parte dello “schieramento delle forze in campo”, un’espressione che mi ha sempre emozionato. Avevo dei soldatini dell’antica Roma, divisi per uniformi e postura, per cui messi uno accanto all’altro facevano un effetto potente di “schieramento”. Erano tutti uguali, quelli della stessa guarnigione o centuria o “arma” ma ogni guarnigione si distingueva soprattutto per i colori e l’effetto finale era potente. Capirete perchè quando poi vidi quei film di Akira Kurosawa (penso a Kagemusha o Ran) la mia felicità fu totale. L’esercito si dispiega, dispiega le sue forze disponendosi, ordinatamente, e cercando di occupare in tutti i punti chiave del campo di battaglia. Come un braccio si distende, dispiegando tutta la forza muscolare di cui è capace, così l’esercito nel momento in cui si schiera ha già impostato la battaglia e forse già determinato le sue sorti.

Esercito, come verbo, non mi ha mai affascinato. Bisogna innanzitutto distinguere tra “esercitare” ed “esercitarsi”. Io posso esercitare diverse cose: su di me i muscoli, la mente e sugli altri posso esercitare pressione, influenza, fascino.

Esercitar-mi invece è solo “su di me”, si tratta, in una parola, di fare degli esercizi. Ora a me gli esercizi non mi sono mai piaciuti. Di nessun genere.
Quando da piccolo studiavo violino ricordo che prima di suonare effettivamente lo strumento c’era la fase degli esercizi di solfeggio, una noia così potente che alla fine prevalse sul mio desiderio di diventare un violinista. Gli esercizi sono collegati all’idea di scuola, non c’è “scuola” senza esercizi, e ricordo anche lì la noia e la fatica, poteva essere educazione fisica o latino, disegno o inglese, greco o soprattutto matematica ma era sempre la stessa musica: esercitarsi era molto, molto dura.
Eppure lo sapevo che, al termine degli esercizi, ci sarebbe stata soddisfazione, felicità ma questo non toglieva la tentazione di evitare, per quanto possibile, la fatica dell’esercizio. Lo sapevo che, ad esempio, proprio grazie alla ripetizione dello sforzo il movimento avrebbe acquistato disinvoltura, apparendo aggraziato. Quanto sforzo nell’apprendere un passo di danza e quanto, a causa dello sforzo, esso risulta “legnoso” e impacciato. Nondimeno, se il ballerino accetta di sottomettersi ripetutamente a tale fatica, le sue movenze diverranno leggere, proprio perché non gli costeranno più alcuno sforzo. E così il bambino che impara a camminare, parlare, scrivere, solfeggiare, o l’apprendista impegnato a maneggiare un nuovo attrezzo. La disponibilità a sottoporsi allo sforzo è la condizione per raggiungere il movimento senza sforzo, così come un equilibrista del circo cammina sul filo con una naturalezza che è proprio quella il fascino del suo “numero”. La naturalezza, come la semplicità, non sono cose semplici, scontate, a volte ci vuole tutta la vita per conseguirle.

Esistono molte opere, soprattutto nel cinema, che si concentrano su questa fase dell’apprendistato (si pensi ai film sul mondo militare o i film “orientaleggianti” sulle arti marziali) come a voler sottolineare che l’intera esistenza umana è un’ascesi, una lunga preparazione, fatta di continue, dure e pesanti, esercitazioni. Il mestiere di scrivere ci ricorda Flannery O’Connor è “una faticaccia” e il maestro Ennio Morricone con crudo umorismo molto romano, ama ripetere che la musica è al 5% ispirazione, ma al 95% traspirazione, cioè sudore.
Gli esercizi, per lo più fatti di continue ripetizioni, suonano un po’ come l’abitudine, qualcosa che suscita sentimenti grigi, legati ad assuefazione, routine, perdita dell’entusiasmo iniziale che ha ceduto il passo a inerzie senza ardore. Ricorda il teologo Cesare Pagazzi che

“con buona probabilità, tale comprensione dell’abitudine deriva dal giudizio severo dato dal romanticismo, tutto intento ad esaltare l’aspetto inedito, dirompente e impetuoso della vita. Nonostante il sospetto romantico (tuttora in voga più che mai, soprattutto per ciò che concerne le relazioni o qualsivoglia esperienza), l’abitudine sta riscuotendo rinnovato interesse. Si tratta comunque di un interesse antico e carsico che annovera pensatori illustri, il primo dei quali è senza dubbio Aristotele. Egli ne tratta sia nella Metafisica sia nell’Etica nicomachea, dove descrive le “virtù” etiche come risultato dell’abitudine, acquisita esercitando ripetutamente le azioni corrispondenti: sforzandosi di praticare più volte atti giusti, un individuo si abitua alla giustizia che diviene una sua “virtù”. La parola latina virtus – come del resto la correlativa greca aretè – indica la “forza”, la “potenza” ottenuta grazie all’esercizio. I due vocaboli sono sorti in ambito militare, alludendo al ripetuto addestramento, necessario ad acquisire vigore per difendersi e attaccare, per conquistare”.

E siamo ritornati al primo significato di esercito inteso come sostantivo, ma prima di concludere voglio aggiungere un ricordo e un punto, anzi un punto interrogativo (qui a BombaCarta le domande vanno più in voga delle risposte) sulla questione: dopo aver vissuto la scuola come “apprendista”, nell’anno 2000 mi ci sono ritrovato dentro come “stregone”, come professore. Ovviamente ho capito ancora meglio l’importanza e la preziosità degli esercizi. Come se non bastasse, in quello stesso periodo sono entrato a far parte dell’avventura di BombaCarta, una strana realtà che portava (e porta), come “sottotitolo”, la dizione: “esercizi di espressione creativa”. Ma, è questa la domanda che lascio al lettore, la creatività ha qualcosa a che fare con l’esercizio?
Per capire il nesso tra BombaCarta e la dimensione degli esercizi, forse può essere d’aiuto rileggersi una storia, accaduta circa cinque secoli fa, che lo stesso già citato Cesare Pagazzi, racconta in un suo recente saggio:

“Nell’anno del Signore 1521, probabilmente in maggio, durante l’assedio di Pamplona da parte dell’esercito francese, un cavaliere spagnolo, fin troppo consapevole del proprio valore, rimase gravemente ferito ad una gamba, a causa di un colpo di bombarda. Catturato e soccorso dai nemici, venne poi inviato al castello di famiglia, il nobile casato dei Loyola. Qui Ignazio stette tra la vita e la morte, sottoponendosi a dolorosi quanto rocamboleschi interventi chirurgici per evitare che la gamba ferita rimanesse “offesa”, più corta dell’altra. Durante la convalescenza e la lenta ripresa del potere di muoversi, si diede alla lettura di una Vita di Gesù e racconti biografici di santi (quasi certamente san Domenico e san Francesco). Le gesta del Signore e dei suoi discepoli accesero in lui il desiderio di imitarli. Aspirazione all’inizio molto instabile (proprio come la sua gamba), ma via via più sicura, tanto da trasformarsi in proposito di intraprendere un pellegrinaggio a Gerusalemme. Il lungo cammino – irto d’ogni genere di difficoltà – funse da cura riabilitativa per la sua gamba ferita, alla quale, per un certo tempo, dovette comunque riservare maggiore attenzione. La ripresa della potenza motoria del corpo – iniziata nel castello di famiglia e compiuta a Gerusalemme – avvenne di pari passo alla riabilitazione dei moti dell’anima. Infatti la malattia e l’iniziale convalescenza offrirono l’occasione di intuire le direzioni giuste o sbagliate verso cui muovevano desideri, immaginazione, volontà, mente. Esistono direzioni consolanti e desolanti; alcune temporaneamente consolanti, ma dalla meta triste; altre in principio desolanti, ma dal traguardo sereno. Insomma, più la gamba guariva, grazie allo sforzo del cammino prolungato, più l’anima riacquisiva agilità, tramite il discernimento e la disciplina dei propri movimenti, un tempo così ingarbugliati. Ignazio metterà a disposizione di tutti la “tabella” del proprio processo riabilitativo, grazie ad uno scritto, dal significativo titolo di Esercizi spirituali. Il nobile aggettivo “spirituale” non deve distrarre il lettore dall’aspro sostantivo “esercizi” che allude a fatica, sforzo, ripetizione di un movimento al fine di potenziarne la forza, conservarla o – appunto nel caso di un processo riabilitativo – riacquistarla. Il vocabolo “esercizio” fu probabilmente assunto da Ignazio dall’abito dell’addestramento militare, atto a conseguire – come dicemmo – la virtù, la forza, l’incorporazione di movimenti potentemente esperti. La sua vicenda di soldato ferito, privato della propria potenza e abilità, rese il termine adatto a indicare quanto necessario al recupero del potere di muoversi e della sua grazia. Gli Esercizi spirituali sono fondamentalmente esercizi di riabilitazione alla riconquista della grazia perduta”.

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. multiformeingegno ha detto:

    Per fortuna esiste anche l’esercizio della mente! Ed è proprio quello che BombaCarta – incidentalmente oserei dire – provoca. Creatività e abitudine non sono autoescludenti, anzi! Per una buona costruzione servono buone fondamenta.

  2. Andrea Monda ha detto:

    mi viene in mente anche il cosiddetto “esercizio dei poteri”, che è molto importante visto che l’ordinamento, se riscontra un mancato esercizio prolungato nel tempo, dispone la perdita stessa di quel potere: il potere senza esercizio di fatto non esiste.. interessante, no?

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