Una lunga attesa

Le grandi rivoluzioni del mondo contemporaneo – quelle della mobilità e della comunicazione – hanno reso a portata di mano il miracolo dell’onnipresenza. Le distanze, sia spaziali che temporali, si sono accorciate. Possiamo andare pressoché ovunque e connetterci pressoché con chiunque. Al tempo stesso, però, abbiamo perso il senso dell’attesa. E ci siamo trasformati in impazienti cronici. “Perché il bus non è ancora arrivato? Perché non mi ha ancora risposto su Telegram? Perché ci mette tanto?” sono le scintille della nostra irritazione quotidiana.

Attendere è ormai un sapere perduto, nonostante la nostra vita cominci con nove mesi di “dolce attesa”, a cui seguono: attesa di diventare grandi, attesa che tutto cambi, attesa del principe azzurro, appuntamenti disattesi, attesa di esami e riconoscimenti, attesa per un lavoro o per una promozione, attesa che nulla cambi, attesa della vecchiaia e della morte (riassumendole tutte con le parole di Raymond Carver: «E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto?»).

Non è forse anche il teatro pura attesa? «L’arte drammatica significa sempre aspettare che “qualcosa” accada. Seduti in sala, aspettiamo che il cattivo venga punito, che gli amanti vengano ricongiunti, che il messaggero del re arrivi in tempo» (George Tabori). E questo non vale anche per il cinema? Ci sono interi generi narrativi che si reggono esclusivamente sul senso dell’attesa. Pensiamo ai gialli, ai thriller o agli horror, e alla suspense che viene generata sia dal non sapere come andrà a fine, sia dal sapere già che presto o tardi succederà proprio quello che temiamo.

E ancora: pensiamo a tutti i meccanismi narrativi che anticipano parzialmente ciò che sta per o potrebbe accadere, generando in noi il senso dell’attesa. Anticipazioni, indizi, introduzioni, preludi, prolessi, presagi. Quante volte l’ultima inquadratura – o l’ultima riga di un romanzo – chiude il cerchio aperto da quella iniziale?

Sono attese docili, camuffate. Non sempre l’attesa è esplicita ed estenuante, in spasmodico primo piano, come nel Deserto dei Tartari di Buzzati, o nelle opere di Kafka o Beckett. L’attesa non è una pretesa. L’attesa, piuttosto che una ricerca ossessiva e torturante, è una predisposizione che mantiene aperto il nostro tempo, e lo rende accogliente, disponibile, ricettivo. Nel componimento Dall’immagine tesa il poeta Clemente Rebora vigila «con imminenza di attesa», ma al tempo stesso scandisce il ritornello «e non aspetto nessuno», a metà strada tra la forma del salmo e la formula scaramantica, un po’ preghiera e un po’ scongiuro. C’è un’incertezza benefica, perché l’attesa è invocazione, non magica evocazione. E’ implorazione, non imposizione: sa cioè di non poter costringere l’Altro a manifestarsi. L’attesa è lo spazio per il futuro che predisponiamo nel nostro presente. «Chi è capace di aspettare – scrive la giornalista svizzera Andrea Köhlersa cosa significa vivere al modo verbale della possibilità».

PS: «Una festa a lungo attesa» è il titolo del primo capitolo del Signore degli Anelli, ed è anche quanto ci aspetta all’Officina del prossimo 13 gennaio 2018, perché festeggeremo… i 20 anni dalla nascita di BombaCarta! NON MANCATE!

DIDASCALIE
1. “Storia di un’attesa” di Sergio Algozzino
2. “La Porta” di Leo Ortolani
3. La festa di Bilbo Baggins: compleanno o addio?

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