Sul filo (per non perderlo)

Mi manca sempre l’elastico
per tener su le mutande
così che le mutande
al momento più bello mi vanno giù

Così cantava La Felicità a modo suo Lucio Dalla proprio trent’anni fa. Meglio non indagare su quale sia poi il “momento più bello”, però possiamo dire che l’estate, appena cominciata anche se in modo un po’ incerto, è il momento del relax, in cui tutti, chi più chi meno, ci “sbrachiamo”. Se questo sbracarsi non vuole essere una resa totale e incondizionata al torpore e alla dissoluzione (in senso fisico più che morale), l’importante allora è che il filo delle mutande tenga. Per tenere deve essere un filo elastico, duttile, capace di reggere ma senza rigore, adeguarsi ai cambiamenti di dimensioni e condizioni piegando la propria rigidità.

Un po’ in tutte le realtà viventi vige questa legge del cambiamento e anche un piccolo organismo come BombaCarta, giovanetta di 20 anni, conosce questo fenomeno. E cerca di non perdere il filo. Così anche oggi, in questo passaggio tra la fine di una stagione, la pausa estiva e l’inizio della prossima, proviamo a ricongiungere quei fili che, da almeno due anni, girano intorno al grande tema del “servizio della letteratura” e tutto quello che ne consegue. Ci siamo lasciati a maggio con un focus sul tema, anch’esso immenso, dell’esperienza, parola chiave di BombaCarta e da lì tocca ripartire. Rubo le parole al filosofo Silvano Petrosino per dire qualcosa su questa parola così gravida di significato:

«il soggetto non solo esiste e vive ma anche fa esperienza del proprio esistere e della propria vita. L’esperienza si configura così come quel raddoppiamento che permette al soggetto umano di uscire dalla circostanza che lo inchioda alla nuda vita, come il raddoppiamento attraverso il quale egli travalica il limite (ex-peiras) all’interno del quale la nuda vita lo individua sempre e solo come un mero vivente. E’ precisamente in forza di questa flessione, all’interno di questo movimento di ritorno o di questa contrazione che il soggetto si costituisce […] Nel riflettere, il soggetto si flette su di sé, si concentra in sé, si raccoglie in sé […] inizia a esistere come singolo soggetto nella misura in cui, prendendo le distanze dal semplice fluire della vita, trova un “luogo d’intimità” in cui potersi raccogliere […] Questo luogo di intimità è la parola stessa: essa infatti ferma, individua, fa emergere, raccoglie, trattiene, salvaguardia, senza necessariamente oggettivare».

La parola dunque, e la parola su cui vorrei soffermarmi in questo particolare “varco” dell’anno è appunto “filo”, proprio per non perderlo. In fondo la vita degli uomini è lunga conversazione ed è quindi vitale non perdere il filo del discorso.

Allora la vita come filo: come tessitura di un filo (non a caso “rosso”, proprio come il sangue) che tenga insieme uniti i tanti momenti, tutti diversi, nei quali noi stessi siamo sempre diversi, a volte l’opposto di quello che eravamo fino a qualche momento prima. Se mettessimo una a fianco all’altra, le fotografie della nostra vita fino a farne un “film” (e film – dall’inglese “membrana” – fa pensare a filo) troveremo tanti scatti di un volto sempre diverso, io a un giorno di vita, io oggi a 52 anni e in mezzo tanti, strani, Andrea… però troveremo (forse negli occhi?) in mezzo a questo caleidoscopio anche un qualcosa che regge, un “filo” che tiene tutto insieme. Chi lo tesse questo filo? Siamo noi o è “la vita” stessa a tessere, a tesserci? Lascio ai filosofi l’ardua sentenza, resta per me evidente il fatto che la vita scorre come un filo, che spesso diventa groviglio e matassa (di cui a volte perdiamo il bandolo) ed è proprio in quel momento che ci rendiamo che il filo è vita, le due cose coincidono.

Non è un caso che il grande “nemico” della vita, da sempre esistito, è stato ultimamente chiamato con il nome di nichilismo. Da nihil, niente in latino, ma nichil viene dalla espressione ne-hilum cioè “senza filo” e questo fa pensare al “filo” della vita, inteso come “filamento” che ritroviamo in tutti gli organismi viventi, quella corda tesa, sottesa a tutto il resto e che collega il seme all’albero, il chicco di grano alla spiga, lo zigote al bambino che nasce e vive, sorretto sempre dal suo DNA. Il nichilismo come spezzarsi del filo, e la parola pienamente umana come resistenza a questa frattura.

Quindi BombaCarta come risposta al nichilismo? Forse ho ecceduto un po’, giusto un filino?

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