Alla fine del mondo

Vecchio che soffre, Vincent van Gogh

Cosa significa accettare la propria finitudine?

È ben strana l’esistenza degli uomini, vissuta con la consapevolezza, costantemente presente, di quanto incerto sia il futuro, se non per un’unica certezza: la vita finisce. Questo limite spesso terrorizza, perché non si sa dove né come tracciarlo, nonostante i tentativi di predizione; c’è quasi un’ossessione per le apocalissi, che nel corso dei millenni sono state declamate in gran quantità per poi rivelarsi, sorprendentemente, un buco nell’acqua.

Nel corso di quest’anno (senza che ci fosse, però, una consapevole previsione) abbiamo avuto la percezione di essere giunti alla “fine del mondo”: abbiamo assistito a sempre più frequenti disastri ambientali, alla diffusione di una pandemia globale, a politiche aggressive e dittatoriali di Paesi potenti, a intollerabili ingiustizie sociali. Tutto questo è dipeso da meccanismi molto più grandi di noi, che tuttavia hanno condizionato radicalmente la nostra vita, facendocene perdere il controllo. E, a questo, non siamo affatto abituati.

Per l’uomo avere il controllo è fondamentale e privato di esso si sente perso e incapace di andare avanti; così è accaduto al commissario Matthai, nel breve romanzo La promessa, di Friedrich Durrenmatt: egli indaga sul terribile omicidio di una bambina e trovare l’assassino diventa la sua ragione di vita. Matthai è intelligente e la pista che segue è giusta, i suoi conti sono perfetti, la logica è impeccabile; eppure non riesce a risolvere il caso, e l’assassino rimane introvabile, a causa di una “sorpresa finale estremamente povera e meschina”.

“ (…) bisogna ammettere onestamente che questo finale depone interamente a favore di Matthai, lo pone nella giusta luce, fa di lui un genio, […] si è spinto in prossimità delle leggi che regolano il ritmo del mondo, e a cui noialtri non arriviamo mai. Solo in prossimità, è chiaro. Perché proprio l’esistenza di questo sciatto e miserevole finale, perché esiste l’imprevedibile, il casuale, se preferisce, la sua genialità, i piani che architettò e tutto il suo modo di agire ne sono spinti all’assurdo, un assurdo che risulta ora assai più doloroso di prima.”

L’elemento imprevedibile è la morte, quel limite ultimo che la nostra mente rifugge ma che c’è sempre. A volte però succede che tutta una vita viene basata proprio su questa unica certezza, come per la giovane Magdalene, compagna di avventure (per un’estate) di Raimondo, ultimo principe di Tribia, la cui vita è raccontata nella biografia Mi toccherà ballare. In un dialogo tra i due giovani, Raimondo, stupito dal modo di vivere della ragazza, chiede:

“Ma come fai?”
“A fare che?”
“Lo sai.”
“A spogliarmi davanti al Golfo di Napoli? A infischiarmene di tutto? A fare sempre e solo quello che mi va? A farti impazzire, restando, tra l’altro, sempre naturale e a mio agio?”
“Più o meno.”
“Non ho nulla da perdere.”
“Non è vero, hai tutto da perdere. Molto più di me, per esempio.”
“Quando sai – come lo so io – quando e come morirai, non hai più nulla da perdere.”
“Se non stai scherzando, quello che dici è molto triste.”
“Ti sbagli. È una grande libertà.”

Forse, alla fin fine, entrambi hanno ragione. Ma Magdalene non ha accettato il suo limite, lo ha solo trasformato nel motore di ogni sua azione: agire per lei è vitale, deve fare tutto e subito, per non fermarsi a pensare ciò che l’aspetta e perché. Accettare il limite, invece, significa porre l’attenzione su alcune cose, piccole e insignificanti, metterle a fuoco, avvicinarsi ad esse.

Quando non abbiamo più il controllo degli eventi è certamente più semplice perdersi nella paura e nell’angoscia, eppure c’è qualcosa che ci aiuta a ritrovare la curiosità e lo stupore. È a questa conclusione che giunge Daniele, protagonista de La casa degli sguardi, quando scopre che:

“Non serve capire, comprendere.
Serve accogliere l’umano con tutta la forza che ci è concessa.
[…]
Non ci si arriva senza coraggio.
Improvvisamente, mi fioccano davanti agli occhi gli ultimi anni della mia vita. Quante parole, nomi di droghe e malattie, soltanto per dire che mi manca il coraggio per vivere e veder vivere le persone che amo, accettando la scure del destino, perché solo così può essere, consumandomi nella vicinanza, nell’accettazione di ogni orrore possibile vivendolo per quel che è veramente: un diaframma. Un velo nero da strappare. Dietro a quel velo restiamo bambini, tutti. Sempre.”

La vera “apocalisse” significa proprio questo: togliere il velo.

E tale svelamento dipende da dove scegliamo di volgere lo sguardo. Magari appoggiati a una ringhiera, affacciati su un giardino (G. Gozzano, L’assenza):

Galiziane alla finestra, Esteban Murillo

Mi piego al balcone. Abbandono
la gota sopra la ringhiera.
E non sono triste. Non sono
più triste. Ritorna la sera.

E intorno declina l’estate.
[…]
E non sono triste. Ma sono
stupito se guardo il giardino…
stupito di che? non mi sono
sentito mai tanto bambino…

Stupito di che? Delle cose.
I fiori mi paiono strani:
ci sono pur sempre le rose,
ci sono pur sempre i gerani…

 

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. Paola ha detto:

    Bellissimo articolo. Paola

  2. Marcella ha detto:

    Mi piace, mette in luce l’instabilità e la finitudine della realtà umana

Prima di inserire un commento, assicurati di aver letto la nostra policy sui commenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *