Essere, o non essere, sé stessi

Ha trascorso tutta la sua vita incarnando il profilo del perfetto maggiordomo: impeccabile, fedele, impassibile e distaccato da qualunque evento, effimero o epocale, che gli accadesse intorno… Al tramonto della vita, l’ormai anziano Mr. Stevens, protagonista del romanzo Quel che resta del giorno, si accorge con rammarico di essere stato un eccellente servitore ma forse di non essere mai stato sé stesso, con le proprie emozioni (sempre accuratamente celate come dovrebbe fare un perfetto maggiordomo), i propri sentimenti (mai realmente indagati), le proprie opinioni (di fatto, inesistenti) e, soprattutto, con i propri errori. Dice infatti Mr. Stevens:

Non posso nemmeno affermare di aver commesso i miei propri errori.  E davvero – uno deve chiedersi – quale dignità vi è in questo?

Fuori era un perfetto maggiordomo, ma dentro chi era veramente? Chi avrebbe voluto essere? Forse non se lo è mai chiesto, non ha mai scelto chi essere dentro, e non solo fuori, eppure, in un istante si rende conto di averne terribilmente bisogno. Avere il coraggio di fare delle scelte, di tentare un percorso, di fare esperienze e, perché no, di compiere i propri “errori” (qualunque cosa si intenda con essi- cosa è un errore, non nella grammatica, ma nella vita?) è come l’acqua e l’aria: è essenziale per vivere davvero.

Come scrive Philip Roth in Pastorale Americana:

Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati.

Come l’aria e l’acqua permettono agli aerei e alle navi di spostarsi, di percorrere tantissimi chilometri da un posto all’altro, così anche le nostre scelte e i nostri errori ci permettono di muoverci, di compiere passi in avanti nel viaggio invisibile alla ricerca di sé stessi.  “Conosci te stesso”, (in greco: γνῶθι σεαυτόν/gnothi seauton, in latino nosce te ipsum) recita il celebre motto delfico iscritto sul frontone del tempio di Delfi, che significa conoscere le proprie potenzialità, ma anche, nella mentalità greca, i propri limiti, per non travalicarli e incappare quindi nella superbia (in greco ὕβρις/hubris).

Acqua e nave si fondono nella significativa immagine della “nave con le vele ammainate” come metafora della vita scolpita sulla tomba di George Grey nella Antologia di Spoon River. George Grey è un uomo che si accorge tardivamente di essere sempre stato fermo, di non aver mai vissuto veramente a causa della paura e della viltà che lo hanno bloccato, che gli hanno impedito di prendere il largo e di muoversi, di esplorare gli abissi delle possibilità che il vasto mare della vita gli avrebbe potuto offrire.

Ho esaminato bene tante volte

il marmo che hanno scolpito per me:

una nave in porto, con le vele ammainate.

In realtà non rappresenta la mia meta

ma la mia vita intera.  

Poiché mi venne offerto l’amore

ed io lo rifuggii per non restarne deluso.

Il dolore bussò alla mia porta, ma io ebbi paura.

Fui allettato dai richiami dell’ambizione,

ma tremavo al pensiero dei suoi rischi.

Eppure tutto il tempo, come un affamato,

cercavo un senso da dare alla mia vita.

E ora so che bisogna alzare le vele

e abbandonarsi ai venti del destino

ovunque essi portino la nave.

Dare un significato alla propria vita

può condurre alla follia,

ma una vita senza significato

è il tormento dell’inquietudine e del vano desiderio, è una nave che brama il mare

e tuttavia ne ha paura.

Le parole dell’epitaffio di George Grey suonano come un monito a non temere le onde dell’alto mare aperto della vita, ed al contempo rappresentano un invito ad addentrarci in esso, tenendo le orecchie ben turate agli ingannevoli richiami esterni, come ha fatto Ulisse con le Sirene, ma pronte ad ascoltare solo la nostra voce interiore nell’immensità del mare.

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