Nodi e grovigli

Gassa d’amante

Probabilmente se qualcuno di voi ha qualche esperienza a bordo di una barca a vela riconoscerà l’immagine qui a sinistra: si tratta di una gassa d’amante, uno dei nodi più usati dai marinai per bloccare le cime. La gassa, sebbene a prima vista sembri complicata, è piuttosto semplice da riprodurre se si è allenati e la si può intrecciare anche mentre si viene sballottati tra le onde e si deve badare ai continui cambiamenti di direzione del vento e monitorare l’apertura delle vele. L’etimologia di questo nome è incerta ma in molti pensano che la gassa sia “d’amante” per la sua particolare forma: due capi della cima si intrecciano formando curve simmetriche e si affiancano paralleli in più punti, richiamando i corpi e i destini degli innamorati. L’analogia viene anche dal fatto che la gassa è un nodo resistente e se fatto bene difficilmente si scioglie per sbaglio.

Ma qui le somiglianze finiscono. Se la gassa è utile anche in situazioni di emergenza infatti è perché si tratta di un nodo anche molto semplice da sciogliere per liberare una cima bloccata, mentre il nodo che lega gli innamorati – chi lo ha sperimentato lo sa – non si scioglie così facilmente.

Il motivo è abbastanza chiaro: al contrario della gassa d’amante, noi non abbiamo davvero idea di come si crei il nodo che unisce due persone e spesso se ci fugge anche solo un passaggio nel processo di formazione di un nodo non saremo in grado di trovarvi una soluzione, se non a tentoni.

Il nodo può essere di certo uno dei tanti punti a maglia che compongono trame ordinate, ma può essere anche, e anzi più spesso è come sa bene chi possiede delle cuffiette o dei capelli lunghi, un groviglio inestricabile creato dalla casualità, che solo per caso si scioglie. Al contrario più si cerca il bandolo della matassa più la situazione sembra complicarsi.  

Omè! ch’io sono all’amoroso nodo
legato con due belle trecce bionde,
e strettamente ritenuto, a modo
d’uccel ch’è preso al vischio fra le fronde;
onde mi veggio morto, s’io non odo
l’umile voce ch’a Pietà risponde,
ché come più, battendo, istringe il nodo,
così credo ch’Amor più mi confonde.

Così Cino da Pistoia nel Duecento descrive il legame tra lui e la donna amata, come un intrico di rami che intrappola un uccello. È curioso notare non ci sia nessuna rete intrecciata a questo scopo, non c’è opera di tessitura: è la natura, il caos ad aggrovigliare le fronde in modo imperscrutabile e più il poeta si dibatte più l’amoroso nodo si “istringe”. A tenere annodato il poeta non sono fronde ma le due belle trecce della fanciulla, che in realtà spesso in letteratura diventano metafora del nodo d’amore, come in Petrarca:

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea

Henry Bergson

Ma l’essere umano non si confronta solo con il mistero del nodo d’amore: i nodi più inestricabili non si producono forse nella relazione con l’altro, ma dentro noi stessi. Il filosofo premio Nobel per la letteratura Henry Bergson poneva una distinzione tra il tempo della scienza, suddivisibile in intervalli tutti uguali, indistinguibili e conseguenti come le perle di una collana, e il tempo reale che scorre nella percezione di ognuno di noi e forma la nostra identità e la nostra memoria. Bergson paragona quest’ultimo a “un gomitolo di filo o una valanga, che continuamente mutano e crescono su se medesimi” e chiarisce:

“Chi esamini la vita psichica nella sua effettualità […] si accorgerà subito che il tempo ne è la stoffa stessa. Non c’è, del resto, stoffa più resistente o più sostanziale.
Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante a un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta.
La durata è l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente.
Che cosa siamo, infatti, che cos’è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita?
Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato; ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il nostro passato, comprese le nostre tendenze congenite. Il nostro passato ci si rivela, dunque, nella sua interezza, con la pressione che esercita su di noi. Conseguenza di questa sopravvivenza del passato è l’impossibilità, per una coscienza, di passare due volte per l’identico stato.
Questo perché la nostra durata è irreversibile: per poter riviverne anche un momento solo bisognerebbe annullare il ricordo di tutti i momenti successivi”.

Dunque il gomitolo di filo rappresenta il tempo che accrescendosi definisce la nostra personalità, un tempo che non si può ripercorrere all’indietro o rivivere perché ogni momento è ormai incastrato nel groviglio della memoria così strettamente che scioglierlo vorrebbe dire distruggerci.

E il taglio netto è di fatti un altro dei metodi possibili per sciogliere un nodo, come ci insegna la storia del nodo gordiano della leggenda, che secondo la profezia avrebbe potuto essere sciolto solo dal futuro imperatore dell’Asia Minore. Molti si cimentarono nella prova ma quando fu la volta di Alessandro Magno il condottiero tagliò la corda con la spada, dando inizio così al proprio regno. Qualcuno potrebbe dire che Alessandro Magno barò, e infatti non si saprà mai se qualcuno avrebbe potuto sciogliere il nodo e prendere legittimamente, ma quello che è certo è che distrusse un oggetto carico di valore simbolico che era considerato alla stregua di un’opera d’arte. Nonostante la frustrazione che questi grovigli inestricabili ci provocano, infatti, chiamiamo nodi i nuclei dei discorsi importanti, le questioni affascinanti e irrisolvibili che tengono in piedi teorie sull’esistenza e impianti morali.

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