OpenLab virtuale – pt. 9 e 10: Schmitt e Hillesum

Prosegue l’OpenLab nella sua versione virtuale, adatta al momento che stiamo vivendo e sperimentazione di un “modello” per la condivisione e il commento di un testo a distanza.

Flavia: Il bambino di Noè (Eric-Emmanuel Schmitt)

Tutte le domeniche, sotto il portico di Villa Gialla, avevo a disposizione dieci passi per farmi vedere, dieci passi per procurarmi una famiglia, dieci passi per smettere d’essere orfano. La prima parte della camminata non mi costava niente, tanto ero impaziente di fiondarmi sulla pedana, ma a metà percorso ero già molto più moscio, e sull’ultimo metro le gambe arrancavano a fatica. Alla fine, come sull’orlo di un trampolino, c’era il vuoto. […]

«Puoi tornare al refettorio, Joseph.»

Ogni domenica le mie speranze morivano su questa frase, con cui padre Pons mi faceva capire che neanche stavolta era andata bene e che dovevo abbandonare la scena. Dietro-front. Dieci passi per sparire. Dieci passi per rientrare nel dolore. Dieci passi per tornare orfano. All’inizio della passerella c’era già un altro bambino che scalpitava. Avevo il cuore gonfio.

«Crede che ci riuscirò mai, padre?»

«A fare cosa, ragazzo mio?»

«A trovare dei genitori.»

«Dei genitori! Voglio sperare che i tuoi genitori siano sfuggiti al pericolo e che presto si facciano vivi.»

A forza di mettermi in mostra senza risultato, cominciavo a provare sensi di colpa. In realtà erano loro che ci mettevano tanto ad arrivare. A tornare. Ma chissà se dipendeva solo da loro. E chissà se erano ancora vivi.

Avevo dieci anni. Tre anni prima i miei genitori mi avevano affidato a degli sconosciuti.

La guerra era finita ormai da qualche settimana. E con la guerra era finito il tempo della speranza e delle illusioni. Noi, i bambini nascosti, dovevamo fare ritorno alla realtà per scoprire, tipo mazzata sulla testa, se avevamo ancora una famiglia o se eravamo soli sulla Terra…

 

La prima cosa che mi colpisce di questo testo è l’accento posto su quei dieci passi che Joseph deve percorrere. Proprio quei dieci passi, ripetuti con tale insistenza, sembrano trasportare il lettore a camminare con il protagonista, sottolineando il carico e il valore del percorso che ci si trova a compiere. Trovo poi interessante notare come nella prima parte del testo i “dieci passi” siano separati da virgole, quasi a voler esprimere la continuità e la lunghezza di quella passerella che racchiude così tanto; mentre nella seconda parte, quando ormai le speranze sono svanite, gli stessi “dieci passi” sono separati da un segno di interpunzione forte, il punto, che mette fine alle aspettative del protagonista. Tutto questo, in unione alla brevità delle frasi, contribuisce ad incalzare il ritmo della narrazione e a trasmettere un senso di angoscia, dolore e rassegnazione.

Altro aspetto che mi cattura è la maturità con cui procede il racconto: Joseph ha solo dieci anni, ma il suo vissuto lo ha costretto a crescere prima – crescita che si riflette nei suoi pensieri. Ciò risulta vero fino al momento in cui non è chiamato a scontrarsi con il suo dolore e con le sue paure. Ed ecco che, quando può permettersi di far cadere ogni barriera nel confronto con una figura di riferimento, torna bambino dando voce alle sue insicurezze (“Crede che ci riuscirò mai, padre?”).

Infine, mi affascina moltissimo il cambio di prospettiva delle ultime righe: la guerra, in una visione canonica condivisa, rappresenta un dramma, una situazione alla quale si spera di poter mettere fine nel più breve tempo possibile. Ma per Joseph non è così. Per lui è proprio quel periodo di distruzione a rappresentare “il tempo della speranza e dell’illusione”, una protezione che lo scherma dall’affrontare una realtà ancor più temibile e terribile: la perdita delle persone amate.

Veronica

Di questo testo mi colpiscono due cose. Come prima, il fatto che il protagonista sembra non avere memoria del passato né nostalgia. Dopo i 3 anni della guerra, non desidera tornare dalla sua famiglia, ma semplicemente avere una famiglia, qualsiasi essa sia. Un desiderio che puo’ rivelare allo stesso modo la necessità  di essere amato come anche la necessita’ di andar via da ‘Villa Gialla’. Una necessità che è espressa nelle ultime righe, quando, a guerra terminata, il protagonista sembra ‘mettersi in viaggio, in ricerca’ della verità sulla propria famiglia. Non sarà più lui ad ‘essere scelto, ma a scegliere’, in un certo senso. Come in un vero e proprio viaggio di formazione, dove l’eroe si auto-determina attraverso le proprie scelte. La seconda cosa che mi colpisce, come notavi anche tu, è la voce di questo bambino, quanto mai matura per la sua età. Una voce adulta, ‘pratica’ che non indulge in ricordi nè si sofferma sui propri stati d’anima, ma nitida e netta descrive azioni.
Infine, last but not least, l’immagine di Villa Gialla, particolarmente evocativa. Non so perchè ma la immagino in cima ad una collina con questo bel patio ampio, dove i bambini si allineano e sfilano per ‘farsi scegliere’ uno dopo l’altro alla luce del tramonto.

Tiziana

Il testo proposto ha una grazia semplice che ci fa immedesimare subito nel bambino Joseph e ci fa identificare nel suo desiderio, nella sua ricerca.
L’affetto di due genitori, il ritorno in superficie, alla luce dopo tanto tempo trascorso stando nascosti.
Il cuore di queste righe per me sta proprio nel tema dello svelamento: dal buio alla luce, dall’invisibile alla micro-passeggiata fino ad una pedana che “mostra”, fa vedere, disvela. C’è tutto il senso della ricerca della vita. Cosa vogliamo fin da bambini? In primo luogo essere amati, essere visti, essere riconosciuti.
Ed è altrettanto bello questo punto del brano: A forza di mettermi in mostra senza risultato, cominciavo a provare sensi di colpa. In realtà erano loro che ci mettevano tanto ad arrivare. A tornare. Ma chissà se dipendeva solo da loro. E chissà se erano ancora vivi. 
Un momento di dubbio, di confusione, un attimo in cui Joseph addirittura si sente colpevole. E nel quale, però, trova una giustificazione alla vita, sua e dei suoi genitori, che come lui stanno combattendo per essere e restare vivi. E lui lo sente.
Si può credere e sperare anche senza vedere.

Federico

In questo brano mi ha subito colpito il forte contrasto tra la domenica, giorno di riposo, di allegria e di pranzi in compagnia, e la solitudine del protagonista. La pedana sembra appunto un trampolino, dal quale ogni volta Joseph non si lancia. Ma in questo caso non è lui a non volersi lanciare, sono i genitori a non apparire. Tuttavia i sensi di colpa lo attanagliano. Perché? Penso che questa parte sia estremamente interessante, in quanto Joseph sembra non avere alcuna colpa, eppure nella sua coscienza qualcosa si muove. Sarà forse a causa di quel desiderio espresso ad  alta voce di trovare dei genitori, ma non i suoi genitori? Sembra quasi che Joseph non senta la mancanza dei suoi genitori in senso stretto e in quanto persone, ma al contrario della funzione del genitore. È il sacerdote a fargli pensare ai suoi genitori. Forse la drammatica esperienza della guerra porta Joseph a esprimersi non solo affettivamente, come ci si aspetterebbe da un bambino, ma anche a ragionare sul piano sociale: ciò che gli manca sono innanzitutto dei genitori e ciò di cui è stufo è l’essere orfano.

Veronica: Diario 1941-1943 (Etty Hillesum)

Mercoledi ”A volte siamo costretti e sconvolti da ciò che ci capita, che poi fatichiamo a ritrovare noi stessi. Eppure si deve. Non si può affondare, per una sorta di senso di colpa, in ciò che ci circonda. è in te che le cose devono venir in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle cose. Una poesia di Rilke è altrettanto reale e importante di un ragazzo che cade dall’aereoplano, ricordatelo bene. Sono tutte cose che fanno parte di questo mondo e non si può ignorarne una per favorirne un’altra. (…) Le numerose contraddizioni della vita devono essere accettate, tu invece vorresti fonderle in un unico insieme e in qualche modo semplificarle dentro di te, cosi ti semplificheresti anche la vita. Ma il fatto è che la vita è composta di contraddizioni, che queste vanno accettate tutte come sue parti integranti, e che non si può accettarne una a spese dell’altra, Lascia che il tutto giri e forse diventerà ancora un unico insieme.”
Lunedi mattina, 20 ottobre ”Fa’ ciò che la tua mano si trova a fare e non pensare al poi. Quindi adesso si fa il letto, si portano le tazze in cucina e poi si vedrà. Tide riceve i girasoli di oggi, la mia ragazzina deve imparare un po’ di pronuncia russa (…) Fa’ ciò che la tua mano e il tuo spirito si trovano a fare, tuffati in ogni ora e non metterti subito a ruminare coi tuoi pensieri, le tue parole e le tue preoccupazioni sulle ore successive. Devi riprendere in mano la tua educazione”
Vi condivido questi due passaggi che mi hanno colpito principalmente per due motivi. Il primo è il tono, che può apparire duro  (l’uso del verbo dovere ripetuto, l’uso dell’imperativo). Se però si va oltre il tono e si considera il contenuto, questo è abbastanza sorprendente.
Nel primo passaggio infatti si postula una sorta di equivalenza tra la realtà interiore e quella esteriore (il ragazzo che cade dall’aeroplano e la poesia di Rilke), perchè tutte cose della vita (bellissima espressione). Come se è nell’uomo, nel suo spirito, che queste realtà trovassero sintesi. Un pensiero che mi ha colpito e sul quale continuo a riflettere.
Il contenuto del secondo passaggio invece mi risulta di grande consolazione, quando dice ‘fai quello che stai facendo in questo momento e non pensare troppo’, un po’ l’evangelico ‘ad ogni giorno basta la sua pena’. Potrebbe essere scontato, ma per me non lo è. Un richiamo a vivere il momento presente e lasciare le preoccupazioni per il futuro – che tanto non possiamo controllare – al domani.

Valeria

Questo testo mi viene a parlare in modo così personale da farmi venire i brividi.
Mi colpisce un po’ tutto. Il ricordarmi che la letteratura è vita e la vita è letteratura mi prende proprio nel momento giusto. Sto scrivendo in questi ultimi giorni, e man mano che pensavo a ciò che scrivevo mi rendevo conto che, dietro ogni parola, seppur in modo “criptico”, si nascondeva la mia storia personale. Le mie paure, le mie speranze, i miei obbiettivi e i miei ostacoli. Ciò che mi è già successo e ciò che mi potrebbe succedere. Aspetti di me che io ancora non conoscevo o non avevo ancora compreso, si mostravano nel testo. È una cosa a dir poco sconvolgente eppure molto reale. E anche nel leggere (che in questo periodo occupa almeno tre ore di ogni mio giorno) riesco a ritrovarmi nelle parole, e a ritrovare in esse la vita di un’altra persona.
Sembra personalmente scelto per me anche quel: “Le numerose contraddizioni della vita devono essere accettate, tu invece vorresti fonderle in un unico insieme e in qualche modo semplificarle dentro di te, cosi ti semplificheresti anche la vita.” Sono una persona molto logica, e la vita con le sue contraddizioni spesso mi sconvolge e mi confonde, l’ultima frase del primo estratto quindi mi rincuora un poco, e la condivido. Spesso bisogna lasciare che prima la storia faccia il suo corso per comprenderla (anche se solo poco) e accettarla.
L’ultima parte anche mi rincuora, mi ricorda di prendere le cose una cosa alla volta, visto che quando affrontate tutte insieme possono far paura. Credo in oltre che sia particolarmente adatto in questi giorni particolari che stiamo vivendo.

Tiziana

La bellezza del testo che hai condiviso è difficile da “commentare”. Mi sembra che aggiungere anche una sola parola a quesi frammenti di diario sia come insistere in una lettura che è già “perfetta” così. E la lettura integrale di questi diari è davvero un dono.
Inizio proprio dal principio: A volte siamo costretti e sconvolti da ciò che ci capita, che poi fatichiamo a ritrovare noi stessi. Eppure si deve. Non si può affondare, per una sorta di senso di colpa, in ciò che ci circonda. Sento queste frasi vere, mi toccano in questi momenti precisi di un’esperienza che sembra collocare le nostre esistenze fuori dal mondo.
Non si può affondare è un modo nuovo (e che io preferisco) per dire “tutto andrà bene”. E non c’è facile ottimismo. C’è fede, fiducia, quel sentimento che i grandi stravolgimenti della storia (quello documentato dal diario, quello che viviamo oggi…) riescono inevitabilmente a calpestare: affondare, però, rende meglio. Un naufragio, una lotta con onde terribili, un combattimento strenuo nel tentativo di non colare a picco, di non andare giù, di non cadere.
Tuffati in ogni ora è l’altra citazione che mi piace: ritorna il linguaggio del mare. Non solo nuotare e addomesticare l’acqua, ma padroneggiarla, tuffarcisi dentro, affrontarla.
Questo testo mi lascia “provata” ma mi regala un senso di speranza che si accorda con lo spirito di questi giorni di Pasqua, una Pasqua strana…
Le numerose contraddizioni della vita devono essere accettate: un augurio ricco e pieno.

Marta

Mi colpisce di questo testo la volontà e la forza di vivere che la anima, nonché lo stile imperativo che giustamente sottolineavi tu e che, per un certo tipo di pensiero, è addirittura l’unica forma di chiamata e di santità, non semplice spinta vitale. La chiamata alla vita e alle sue contraddizioni può essere un comando che viene solo dalla vita stessa, anche e soprattutto quella più umile (i fiori, le tazze, la corretta pronuncia): per questo, non c’è possibilità di conferimento unitario di senso che possa provenire dall’interno. Altrimenti, come si potrebbe parlare di ritrovare un'”educazione”?
Viene a farmi compagnia in questo tempo particolare e ancora di più in questo giorno particolare, in cui non possiamo trarre ciò che vogliamo dalla realtà, in cui tutte le cose non devono fare altro che tacere e delle quali possiamo solo accettare il silenzio.
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