Le strade di Antonia Arslan
Il 24 aprile si celebra la strage degli armeni per mano dei nazionalisti turchi nel 1915. Il primo genocidio del ‘900 (circa 1,2 milioni di morti) è un evento storico rimasto sconosciuto ai più in Italia fino al 2004, quando Antonia Arslan pubblicò il suo primo romanzo. Il sorprendente La masseria delle allodole vinse il Premio Campiello ed ebbe un grandissimo successo di pubblico. Anche perché rivelò un’autrice capace di raccontare fatti drammatici realmente avvenuti senza recriminazioni, ma facendo vibrare la parola scritta di bellezza e di amore per la vita. Alcune settimane fa Rizzoli ha pubblicato il sequel del primo romanzo della Arslan, La strada di Smirne, un altro grande libro. In esclusiva per BombaCarta, ecco la trascrizione di una mia intervista del 26 marzo scorso ad Antonia Arslan in cui emerge tutto lo spessore umano, culturale e spirituale di questa autrice unica nell’attuale panorama letterario italiano.
Sono passati cinque anni dalla pubblicazione del tuo primo romanzo e oggi ci sorprendi nuovamente con un altro splendido racconto. Cosa lega questi due libri?
Ho sempre saputo di dover dare un seguito a La masseria delle allodole. Sentivo dentro di me che le storie narrate in quel libro erano appena iniziate ma non sviluppate completamente. Restava in sospeso tutta una dimensione del racconto ovvero ciò che sarebbe accaduto negli ultimi due anni di guerra e subito dopo. La masseria delle allodole si conclude con la salvezza dei bambini, ma poi cosa succede? Che ne sarà di questi bambini che trascorrono un anno della loro vita in uno scantinato di Aleppo prima di partire per l’Italia con passaporti falsi? Intanto la Grande Guerra va avanti sia sul fronte mediorientale che sul fronte europeo ed è un conflitto terribile – in particolar modo gli ultimi due anni. Questi eventi storici si intrecciano con il mio racconto e man mano che la guerra volge al peggio i criminali che avevano organizzato il genocidio sono sempre più insicuri sulle loro poltrone mentre gli armeni iniziano un po’ a respirare. Bisogna precisare però una cosa: quelli che abbiamo visto partire per l’Italia alla fine della guerra non si possono considerare semplicemente dei bambini. In modo diverso hanno tutti sofferto e vissuto atrocità: sono due adolescenti che sono state violentate e una bambina che ha assistito alla decapitazione del padre. E poi c’è il maschietto, l’unico tranquillo, Nubar, un tesoro di bambino che sorride sempre, solare anche se a lui muore subito la madre, appena iniziato il viaggio in nave per l’Italia.
Così mentre la prima parte del libro racconta il loro arrivo a Venezia attraverso l’Egeo e la Dalmazia, la seconda narra quello che succede in Medio Oriente a Isacco, Ismene e Nazim che, dopo aver salvato i bambini, non li rivedranno mai più. Ismene e Isacco vanno in un orfanotrofio e cominciano a prendersi cura di tutti quei piccoli malnutriti, uccellini moribondi, che si trascinano per le strade di Aleppo, la Piccola Città. Sono molte le persone che vorrebbero aiutarli ma organizzare un orfanotrofio non è facile. Le vicende si alternano e la storia si sviluppa finché l’orfanotrofio viene trasferito a Smirne, la grande città a maggioranza greca. Smirne è una città molto ospitale, accogliente, con un grande porto. Intanto Nazim vorrebbe andare a La Mecca ma non ci riuscirà mai perché mio nonno Yerwant lo chiama dall’Italia. Poi, finita la guerra, essendo caduta la dittatura dei Giovani Turchi che aveva portato allo sterminio, intende tornare in patria come tanti altri armeni per ricominciare a vivere e riprendere a esercitare il proprio mestiere – chi a fare il panettiere, chi a coltivare la terra, chi a riaprire la farmacia.
Questo è il cuore del mio secondo romanzo sul dramma degli armeni. È il racconto di un ritorno che non si compirà, che comunque non sarà definitivo perché alla fine saranno cacciati di nuovo e intrecceranno la loro storia con quella dei greci: le storie dei due popoli in Asia Minore convergono nell’incendio di Smirne.
Smirne è nel titolo del libro, Smirne è nella testa di tanti armeni che sognano un ritorno…
I greci tentano di sbarcare in Anatolia, essi rappresentano un minuscolo paese di pochi milioni di abitanti che vuole riprendersi Costantinopoli: loro definiscono questa impresa megalidea – la grande idea. Nel 1919 occupano Smirne che impazzisce di gioia perché, come ho già detto, è per gran parte popolata da greci e in questo modo diventerebbe di fatto una città greca. Ma poi l’esercito ellenico si addentra in Anatolia ed è facile immaginare cosa può succedere a un esercito che si inoltra in un grande paese: pian piano si indebolisce mentre, al contrario, il nemico ha modo di armarsi. Per di più il nemico è guidato da un grande generale, Mustafà Kemal Atatürk, che sa attendere e stabilire ottimi rapporti con inglesi, francesi, italiani. Nell’agosto del 1922 l’esercito greco viene distrutto e in rotta riguadagna le sponde dell’Egeo. I soldati sono costretti a imbarcarsi disordinatamente e tutti i greci rimasti in Anatolia, a quel punto, sono in balia dell’esercito turco che avanza. Per di più Mustafà Kemal, generale astuto che vuole ambiziosamente riprendere in mano il paese per farne una Repubblica e abbattere il sultano, decide di distruggere Smirne con un incendio, vuole un evento che rimanga impresso nella storia. Entra in città, attende che il vento cambi e all’inizio del settembre 1922 la città comincia a bruciare: l’ottanta per cento delle sue case vengono distrutte. L’antica Smirne brucia completamente tranne i quartieri turchi e una piccola parte di un quartiere europeo verso nord. In questo modo finisce il sogno del ritorno e insieme viene posta la pietra tombale per la civiltà greca in Anatolia, così come era avvenuto per la civiltà armena due anni prima.
Una nuova sconfitta per gli armeni, altro dolore. Eppure nel tuo racconto, come già ne La masseria delle allodole, la tragedia è attraversata dalla bellezza e dalla vitalità sorgiva dei rapporti che legano i protagonisti nel tempo e nello spazio. Ho l’impressione che questo aspetto della tua narrazione colpisca il lettore più dei risvolti storici della vicenda.
Credo che i lettori percepiscano l’intensità che unisce questa grande famiglia. Credo che riescano a immedesimarsi in questo nucleo di persone che vive disseminato da secoli in diverse città dell’Anatolia e che sente sulla propria pelle l’enorme frattura rappresentata dal genocidio. Persone intervistate a distanza, ormai dopo tanti anni da quegli eventi, quando ricordano i fatti vissuti – anche prima del genocidio – tornano all’infanzia e parlano con la voce sottile e incerta di un bambino che balbetta. È incredibile ma accade proprio questo, anche alle persone che abbiamo intervistato in Italia: spesso non sono riuscite neanche a parlare nel tentativo di difendere la loro nuova famiglia dall’angoscia che si portano dentro. Devo dire che i lettori si immedesimano e rispondono, mi mandano lettere per ringraziarmi perché in qualche modo hanno rivissuto qualcosa che per loro è come una nostalgia.
La morte è un altro elemento che permea le pagine del tuo libro, ma accanto c’è sempre un’idea di salvezza. Come convivono le due cose?
Certo, la morte e insieme la salvezza. Deve esserci salvezza. Altrimenti il racconto scivolerebbe nel morboso, si limiterebbe a una descrizione ripetitiva e inutile del male – questo alla fine allontana il lettore. Invece occorre capire che in qualche modo il male e il bene convivono in ognuno di noi – e che anche in queste grandi tragedie non possiamo pensare i cattivi da una parte e i buoni dall’altra.
Certo, gli uomini “giusti” esistono – intendo dire quelli che operano esclusivamente per il bene – ma in realtà sono molte le persone che anche occasionalmente compiono un gesto buono perché nel loro cuore e nella loro anima si alternano pulsioni buone e cattive. Io credo che la lotta tra male e bene sia un dramma che si svolge costantemente dentro ognuno di noi e che quando assume proporzioni grandiose siamo portati a identificarci con quello che ci viene raccontato.
Inoltre nel libro aleggiano l’idea della Provvidenza e la volontà inesausta degli armeni di sopravvivere comunque. C’è un’identità che si conserva in modo incredibile ancora oggi tra persone che magari non conoscono più la loro lingua originaria. Anche in comunità piccole, come quella che vive in Italia – composta da poche migliaia di persone -, si sente ancora la necessità di identificarsi, si sente il richiamo a un’identità che è stata minacciata. Questo credo sia un aspetto che tutto sommato piace. È recepito perché evidenzia una lotta, una battaglia e infine una sopravvivenza anche casuale ma che è stata evidentemente decisa altrove.
Nel sentirti parlare dei tuoi libri si ha la sensazione che la scrittura sia servita a rivelare, innanzitutto a te stessa, aspetti sconosciuti e misteriosi della tua personale identità. È così?
Ma certo. Io sostengo di avere una maturazione lenta, tardiva. Ho impiegato tanti anni a decidere che per essere in equilibrio con me stessa dovevo affrontare la fatica di dar voce a questa identità. E devo dire che, come succede spesso nella vita, c’è sempre qualcuno al momento giusto che ti aiuta. Nel mio caso sono state le persone che cito sempre: il mio professore di lingua armena a Venezia e Sharon, la mia amica americana che parla perfettamente l’italiano. Tutti e due mi hanno spinto a un certo punto – evidentemente era il momento giusto – ad affrontare questa fatica, questo sforzo, il sudore quotidiano. Mi hanno chiarito l’importanza di non fermarmi a vagheggiare e a coltivare la memoria solo per me, ma a cercare di condividerla con gli altri.
Alla base dei tuoi libri c’è la vicenda familiare che ti ha raccontato tuo nonno, ma immagino che avrai compiuto anche un certo lavoro di documentazione storica.
Sì, ed è stato un lavoro enorme. Per esempio, su Smirne ho letto tutto quello ho trovato. Libri soprattutto in francese e in inglese perché in italiano c’è ben poco su questa tragedia, sul ruolo per esempio degli italiani che avevano occupato una parte dell’Anatolia. All’epoca gli italiani possedevano Rodi e altre isole dell’Egeo e quindi volevano annettersi anche Smirne. Poi però l’hanno ceduta ai greci perché la popolazione della città era a maggioranza greca. Ma per questo gli italiani si erano indispettiti e dal sud, dove si trovavano, iniziarono a fornire armi a Mustafà Kemal e ci sono lacune storiche intenzionalmente non colmate o astutamente cancellate a questo proposito. Altri libri che ho consultato sulla tragedia di Smirne sono molto vecchi ma proprio due anni fa è stato pubblicato in Francia La fin de Smyrne – Du cosmopolitisme aux nationalismes un libro di Hervé Georgelin La fine di Smirne. Dal cosmopolitismo ai nazionalismi: si tratta di un racconto su come era la città prima dei fatti storici che io racconto, di come è stata modernizzata nell’Ottocento diventando un grandissimo porto. È un libro che tra l’altro ricorda quanto Smirne nel 1920 fosse una metropoli moderna che disponeva di tutto: aveva venti sale cinematografiche, un grande teatro, un galoppatoio e uno sporting club. Anche i lungomare erano stati rifatti alla fine dell’Ottocento con interventi urbanistici analoghi a quelli realizzati per la nuova Parigi dal Barone Haussmann.
C’è quasi un’eco di fondo che risuona nel tuo romanzo, un rimando corale. Quali sono i nodi principali tra personaggi e storie?
C’è in effetti un intreccio tra i vari personaggi del libro. All’inizio troviamo la povera infermiera tedesca che ha messo in piedi l’orfanotrofio e non sa come gestirlo perché ci sono tante questioni pratiche da risolvere. In primo luogo bisogna dar da mangiare ogni giorno ai tanti bambini rifugiati, ma questo non è sufficiente. Lei li scambia per degli angeli, ma anche Isacco e Ismene sono angeli in fondo.
Però il cuore più profondo di tutto il libro è la storia di Hagop e Sylvia – i due adolescenti unici superstiti di due famiglie dello stesso villaggio – che hanno visto quello che non dovevano vedere e hanno subìto tutto quello che si può immaginare ma che alla fine riscoprono la speranza proprio nel loro reciproco avvicinarsi: nel calore fisico, nell’odore dei loro corpi vicini che li porta infine a ritrovarsi e a fare l’amore. Ismene fa poi sposare questi due quattordicenni che la seguiranno fino alla morte.
Perché dopo tanta sofferenza e a così grande distanza nel tempo c’è ancora chi nega le atrocità perpetrate con il genocidio degli armeni?
Sembra incredibile, è vero. Io faccio parte di un gruppo che dialoga su internet e in cui si ritrovano studiosi di tutto il mondo – tra questi molti sono turchi. E anche le ricerche sulla verità storica vanno avanti continuamente. Di recente è emersa ufficialmente la storia di un padre turco che ha coraggiosamente denunciato il Ministro dell’educazione perché sua figlia e molti altri bambini turchi a scuola sono stati costretti a vedere un film squallido che incita all’odio verso la povera minoranza armena. Si tratta di un tentativo revisionista fatto all’interno della lotta che si sta svolgendo in Turchia fra i negazionisti e chi cerca di far progredire il paese facendogli scoprire gli scheletri negli armadi del passato per guarire finalmente la nazione dagli odi. Una nazione che vive ancora la realtà su due piani distinti perché tutti sono a conoscenza di quello che è accaduto nella storia ma nessuno ne parla apertamente. C’è quindi, ancora, un fondamento di profonda menzogna.
Anche su internet del film si dice che è una vergogna, che è soltanto un incitamento all’odio la teoria che sostiene sarebbero stati gli armeni ad aver massacrato i turchi. E allora perché oggi in Turchia gli armeni sono solo 60.000 e i turchi 73 milioni? La fortuna ha voluto però che una bambina di dieci anni tornasse a casa e raccontasse del film al padre, che è un avvocato turco e che ha denunciato il fatto. Si tratta evidentemente di un uomo sensibile come quei centomila cittadini turchi che sono scesi in strada a manifestare con i cartelli che dicevano “Siamo tutti armeni” quando è stato ucciso il giornalista e scrittore armeno Hrant Dink nel gennaio del 2007. Vedremo come si evolverà la situazione e quali conseguenze ci saranno.
Che cosa rischia questo avvocato?
Rischia di essere messo sotto processo, sia lui sia chi ha aderito alla Petizione dei 200 promossa da duecento intellettuali turchi che hanno chiesto scusa agli armeni attraverso internet. Di proposito non hanno mandato la petizione ai giornali e in pochi giorni è stata firmata da 30.000 persone. Subito un procuratore della Repubblica – mi sembra di Ankara – voleva metterli sotto processo tutti e 30.000. Allora un paio di giornali turchi hanno scritto: Siamo matti? Dove celebriamo il processo? Allo stadio? – è evidente che nella questione ci sono risvolti comici…
Quel procuratore ha così rinunciato all’idea ma se ne è fatto avanti un altro che vuole processarli ugualmente: rischiano l’accusa di oltraggio alla Turchia e la pena di alcuni anni di prigione – ma anche se non dovessero metterli in galera ci sono comunque le spese legali da sostenere e tutte le conseguenze che puoi immaginare.
Vuol dire che c’è ancora qualche rischio per loro?
Certo, in fondo persecuzioni e delitti di questo tipo continuano a esserci. Ci sono anche le minacce e le botte. In Turchia ogni chiesa in cui si svolge un rito cattolico o cristiano è sorvegliata dalla polizia: c’è un controllo per sapere chi entra. Pertanto se qualcuno vuole convertirsi deve farlo di nascosto.
A proposito di delitti, vorrei ricordare che un anno prima dell’uccisione di Hrant Dink (giornalista promotore di un giornale pubblicato in lingua turca e armena) con un colpo di pistola alla nuca sulla porta della sua redazione, con le stesse modalità c’è stato a Trebisonda l’assassinio di don Andrea Santoro. Poi sono stati uccisi tre missionari protestanti a Malatya e le modalità non sono state rese note perché particolarmente efferate: sono stati tutti e tre torturati fino alla morte, l’ultimo era agonizzante quando è arrivata la polizia ma è morto senza poter parlare. Il gruppo responsabile di questi omicidi si chiama Ergenekon ed è probabilmente finanziato da quello che tanti definiscono lo “Stato segreto”, cioè la base profonda dei militari turchi.
La masseria delle allodole è stato tradotto in tanti paesi del mondo. Come è stato accolto tra gli armeni che vivono in quei paesi? E quali effetti suscita la storia che riveli tra chi non è armeno e probabilmente non ne sapeva niente?
L’accoglienza è dolce ed entusiasmante a seconda dei luoghi. Negli Stati Uniti e in Inghilterra il romanzo è andato bene – in entrambi i paesi è stato pubblicato anche in edizione tascabile. Negli USA è arrivato finalista a un grande premio, il “Los Angeles Times Book Prize” e in Inghilterra al Premio di Dublino. Però, al di là dei riconoscimenti ufficiali, per me la cosa più importante è che tra le comunità armene è iniziato uno scambio di opinioni su quelle memorie sospese nel tempo: ora ci si parla e si comincia a pensare. E soprattutto a riflettere sul fatto che se una piccola comunità come quella italiana è riuscita a esprimere un libro che viene tradotto in tutto il mondo, anche ciascuna delle altre comunità può iniziare a farsi sentire, a difendersi di più. Ecco un esempio: il 22 di aprile vado negli USA all’Università di Princeton e poi a Detroit dove la locale comunità armena ha comprato 1000 copie del mio libro per distribuirle gratuitamente alla gente. Pensa che cosa tenera. Finora La masseria delle allodole è stato tradotto in quindici lingue – sta per uscire in russo e spero presto in arabo.
Quindi la tua è una narrazione che genera altre narrazioni?
Sì, in qualche modo è così. Anche in Italia ho raccolto tanti documenti di sopravissuti che non avevano mai parlato. Di solito sono quaderni di persone scomparse, lasciati ai figli che finora li custodivano come memoria personale. Ma adesso escono fuori. Proprio ieri mi è arrivato un diario dalla figlia della balia dei Taviani, i registi cinematografici. I fratelli Taviani avevano una balia armena che gli raccontava sempre la storia di quel genocidio ma loro non ci credevano, erano bambini. Poi però hanno girato un film su questa storia, tratto da La masseria delle allodole.
Dopo il tuo libro in Italia c’è stato solo quello di Fethiye Çetin, non molti altri. Perché?
È vero, hai ragione. Heranush, mia nonna di Fethiye Çetin è l’unico altro racconto sul genocidio armeno. Ci sono stati altri libri ma di altro genere, come Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’impero ottomano alla Repubblica di Taner Akçam pubblicato dall’editore Guerini, ma è un saggio storico. Akçam è il più grande storico turco e ha usato nel titolo il termine genocidio. Non a caso vive in America. Sempre edito da Guerini c’è poi un libro scritto da Donald E. Miller e Lorna Touryan Miller intitolato Survivors ovvero il genocidio degli armeni raccontato da chi allora era bambino, scritto raccogliendo le testimonianze di un gruppo di sopravissuti che vivevano in California. Infine Rizzoli ha tradotto Le rose di Ester. Una madre racconta il genocidio armeno scritto da Margaret Ajemian Ahnert – un’armena americana – sulla storia di sua madre.
ciao Stas’non ho trovato ancora La grotta azzurra …, però mentre aspettavo alle Poste il mio turno …. ho preso la Strada di Smirne, non che fossi interessata personalmente al genocidio degli armeni ma più che altro alla domanda che hai fatto all’autrice,” se scrivere questo libro ha in qualche modo rivelato degli aspetti di se stessa a lei sconosciuti…”
Bella domanda!
a presto Luisa
conosci te stesso… veramente, ci aveva già pensato l’oracolo di Delfi ;)
Un concetto simile si trova anche nel monito di Sant’Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità).
Mi chiedo che senso ha comprare il libro ” le strade di Antonia Arslan se non si è interessati personalmente al genocidio degli armeni, cioè l’odissea fatta di fame, violenze, torture, stupri che causò circa 1,2 milioni di morti?
Si legge o si guarda le figurine? In questo caso forse è meglio guardare un’ immagine per farsi un’idea.
http://www.armgate.com/genocide/pic18.jpg
Caro “pellegrino”
mi dispiace molto se con il mio commento ho ferito la tua sensibilità riguardo l’argomento del libro!
La vita è fatta anche di piccole cose, alcune le conosci perchè ti scuotono e ti travolgono, anzi forse le conosci dopo che hanno fatto tutto questo,
altre invece probabilmente le raggiungi per caso, come quando ti attira una domanda fatta all’autrice di un libro. Luisa
Mia cara Luisa sono altre le cose che feriscono la mia sensibilità, tutte quelle che umiliano la dignità dell’uomo , quelle che richiedono pietà e misericordia, non il tuo commento.
Non dispiacerti per me pensa alle tue piccole cose.
a partire dalla domanda rivolta a Antonia Arslan
Quali sono i nodi principali tra personaggi e storie?
Mi viene da pensare a Orhan Pamuk scrittore turco contemporaneo(viene incriminato nel 2005, a seguito di alcune dichiarazioni fatte a riguardanti il massacro, da parte dei turchi, di un milione di armeni) è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione:
“nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”.
« Io sono fatto di libri» afferma Orhan «Io ho avuto due periodi da lettore. Ho letto tutto fra i sedici e i trentacinque anni. Per me, turco, Paese di grandi tradizioni letterarie ma non di primissima fila come gli altri, era importante sapere che cosa fosse stato pubblicato altrove e in Occidente. Mi sono nutrito di letteratura. Ecco perché sono fatto di libri.
Poi mi sono messo a scrivere, senza perdere di vista i miei punti di riferimento: la mia città, la mia origine, gli autori più amati, turchi e stranieri.”
“Quando si scrive si ama di più l’umanità, perché è possibile riuscire a cogliere i dettagli, a conoscere vite, culture e identità. La scrittura aiuta a cambiare il mondo”. E crediamo, dopo queste parole, che non ci sia verso la scrittura dichiarazione d’amore più bella, sincera e possente.
Ha scritto di sé:
« Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull’altra riva, l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere »
“La scrittura e la lettura sono per me medicine, la cura di cui ho bisogno quotidianamente per la mia anima. Ho bisogno di stare solo in una stanza davanti ad un foglio bianco e scrivere. La scrittura impone disciplina, e se a fine giornata non sono riuscito a produrre un certo numero di pagine la mia coscienza non è placata. Io sono i miei libri”. Una dichiarazione significativa e tale da racchiudere in sé una densità profonda che ci porta ad affermare con convinzione che Pamuk e la scrittura costituiscono un’unica identità, all’interno della quale i confini tra il sé e la parola scritta scompaiono progressivamente fino a dissolversi”
“Così mi sono costruito.”
Ci sentiamo quando avrò finito di leggere il romanzo, considerando i miei tempi biblici…. chissà quando!…
Poi potrei consigliare un testo che vorrei leggere anch’io, che ha un titolo casualmente importante “Il dio delle piccole cose” di Arundhati Roy , autrice indiana che ha lottato per i diritti umani in paricolare delle donne del suo paese.
Leggere costa fatica a volte perchè ti mette in discussione, perdersi e ritrovarsi nello stesso tempo anche può fare paura , anche scoprire ciò che si è,e desiderarlo nello stesso tempo.
Il legame rivelatore di misteri e portatore di sogni. La scrittura per gli scrittori.
ciao luisa
Grazie per la segnalazione di Arundhati Roy , autrice indiana che ha lottato per i diritti umani in paricolare delle donne del suo paese.
Io sono sempre umanamente e culturalmente solidale con le donne, perchè è la mia storia di emancipazione la mia sofferenza.
Trascrivo la poesia della Ada Merini ” le donne del sud” per ringraziare quelle donne del quartiere dei marinai di Mazzara del Vallo
( Sicilia)che nel ’76 ( durante una campagna elettorale) mentre io parlavo loro di emancipazioe femminile, con i loro silenzi e i loro sguardi severi mi fecero vergognare di essere lì a conolizzare.
Tornando a casa in una macchina blu insieme a Sciascia e un parlamentare , quegli occhi di ghiaccio e severi mi fecero capire che la mia ” emancipazione” era ad una svolta:
era su strade di pietra serena luccicanti sotto il cielo, zeppo di stelle della Sicilia, fra quelle donne, fra quella povera gente senza potere.
Non avevo nessun diritto da proclamare avevo solo da comprendere , fra quelle donne del sud cosa significhi essere ” una penelope dolce altera nella sapienza” ardente nell’amore.
La solidarietà fra donne è anche onorare il sacrificio e la rinuncia che tante donne fanno di sè per amore di un altro.
Oggi che sono piena della loro consapevolezza la mia scrittura non è per l’ emanciapazione femminile ma per l’emancipazione maschile perchè elabori il dono che Dio gli ha dato ponendogli al fianco ” un cristallo amante di ciò che è vero”
e diventino uomini capaci di amare davvero.
Le donne del Sud
Le donne del Sud,
tenere come l’ombre
voraci come bei fiori,
le donne del sud
che hanno il cospetto di ocra
le mani di una domanda,
sannno essere silenziose e presenti
tu Penelope dolce
intessi una tela viola
Ti ho vista alla finestra
abbarbicata e leggera
come l’ edera folta
Tu sei una donna del Sud…
Altera nella sapienza,
vedova nel tuo lavoro
tenera come il cristallo
amante di ciò che è vero
Le donne del sud,
ardono dei loro mariti
perle che cadono fonde
in grembo alla gelosia
Le donne del sud
hanno il passo che lieve
scandisce le foglie fitte,
son novembrine e segret
somigliano alle strane voglie
che prende l’ ostensorio in mano
ad un misterioso prete.