Cercare l’invisibile

Quante cose invisibili ci passano davanti gli occhi tutti i giorni? L’essere umano è da sempre consapevole dell’esistenza di cose che sfuggono ai suoi sensi, e che tuttavia determinano aspetti fondamentali della sua vita. Ogni civiltà esistita ha trovato modi diversi per cercare di decodificare queste cose invisibili, dando loro molti nomi: divinità, destino, fato, karma, magia, anima, psiche, etere, tempo…

Nonostante questi tentativi, l’invisibile non è stato ancora afferrato e ogni volta che ci imbattiamo in esso siamo costretti a fare i conti con i nostri limiti, a ripensare i nostri schemi e le nostre abitudini. L’invisibile non si concede facilmente, e bisogna soffermarsi sulle cose per poterlo cogliere.

Uno che ha molto a che fare con le cose invisibili è il fotografo. Non a caso l’ispirazione che ci ha spinti a scegliere questo tema dell’anno proviene da una Storia della fotografia:

Il fatto è che la speranza profonda […] è di rendere fotograficamente visibile tutto ciò che sfugge, tutto ciò che è al di là della visione naturale: ciò che è troppo vicino o troppo lontano, ciò che è nascosto nelle pieghe del corpo, ciò che è trasparente, ciò che scompare — e perfino l’anima.

Catturare l’invisibile è dunque un modo per avvicinarsi ad esso e poterlo conoscere. La fotografia, tuttavia, ha presto dimostrato a chiunque la sapesse usare che l’invisibile non va afferrato, quanto piuttosto vissuto. A cominciare dal suo luogo d’origine, la camera oscura.

Tutto il processo fotografico avviene in uno spazio celato ai nostri occhi; possiamo spiare da un mirino, ma tutto ciò che vediamo è l’esterno, mai l’interno. Perché la fotografia — analogica o digitale — può esistere solo se non è vista nel momento in cui nasce: che sia una pellicola o un sensore, il materiale attraverso cui una foto è catturata deve essere ben nascosto nell’oscurità della sua macchina fotografica.

Forse proprio per questa familiarità con l’invisibile si è pensato subito che il nuovo mezzo potesse cogliere ciò che di “non visibile” stava nel mondo. Fotografare l’anima, per esempio, era sia un’ispirazione che un incubo degli uomini dell’Ottocento. Balzac ad esempio credeva che «ogni corpo, in natura, è composto da una serie di spettri, in strati sovrapposti». Ogni fotografia scattata «interveniva a rivelare, distaccava e tratteneva, annettendoselo, uno degli strati del corpo fotografato». Così tale corpo perdeva un suo strato, ossia una parte fondamentale della sua essenza costitutiva.

Eppure, da buon artista, Balzac concesse una parte di sé alla macchina fotografica.

D’altronde gli artisti conoscono bene l’arte del mostrare e del nascondere le cose. In Lacuna. Saggio sul non detto, Nicola Gardini individua ciò che distingue la letteratura da altri tipi di scrittura in una sua caratteristica: quella di «non dire al fine di dire». Quando vogliamo entrare veramente dentro un testo letterario, continua Gardini, occorre 

[…] sondare l’intenzione del testo, entrare in dialogo con la sua retorica e la sua intelligenza, visitarne le profondità, condividerne lo spirito e accompagnarlo oltre la soglia del discorso puramente verbale. Occorre, in un certo senso, che diventiamo anche noi invisibili per riconoscere l’invisibile.

Il “non detto” è ciò che di invisibile aleggia in una storia ed è proprio questo a darle una parvenza di realtà. 

Ma il più grande e ancora poco inesplorato regno dell’invisibile è quello dell’inconscio. Tra i primi a parlarne troviamo un filosofo realista, Friedrich Johann Herbart. Una delle sue teorie riguardava una certa “soglia della coscienza”: una sorta di ingresso per il palcoscenico del visibile, sul quale si alternano le idee, le emozioni e i ricordi generalmente acquattati lì dove non possiamo vederli.

La famosa metafora di Freud che spiega il rapporto tra conscio e inconscio attraverso l’immagine di un iceberg portò l’inconscio a un grado diverso di concretezza. Esso non fu più un luogo di passaggio, ma divenne un intero mondo che vive così profondamente in noi da rendercelo pressoché irraggiungibile. Così vicino, così lontano.

Eppure non è solo l’interiorità a costringerci a fare i conti con l’invisibile; anche ciò che sta fuori ha la sua dose d’invisibile, a volte ben nascosto, molte altre sotto il nostro naso.

In effetti, tutto l’esistente è costituito da una materia invisibile: gli atomi. Per la precisione «trilioni di atomi, che vagavano ognuno per conto proprio» e che «hanno avuto la gentilezza di assemblarsi in una combinazione molto complicata, e questo appositamente per creare noi» (Breve storia di (quasi) tutto, Bill Bryson). 

D’altro canto, ciò che è troppo grande non è meno invisibile di ciò che è troppo piccolo. Un fisico che studia gli atomi deve lambiccarsi il cervello almeno quanto un astronomo che scruta l’universo.

Ma, per fortuna di entrambi, qualcuno un paio di secoli fa ha inventato la fotografia. Evolutasi con le ambizioni dell’uomo, essa ci ha avvicinati sempre di più all’invisibile, rendendo un po’ più alla nostra portata l’infinitamente grande dell’astronomo e l’infinitamente piccolo del fisico.

David Nadlinger – University of Oxford. Un atomo metallico intrappolato tra due elettrodi.

Event Horizon Telescope, l’orizzonte degli eventi del buco nero supermassiccio al centro della galassia Messier 87.
Lascia un commento a questo articolo