Passaggi

(Immagine: Lee Friedlander)

Poche parole hanno un senso tanto duplice in italiano quanto la parola “passaggio”. Nella sua accezione più comune, la natura propria di ciò che è di passaggio è il suo essere transitorio, quindi effimero, occasionale, a suo modo anche estraneo. Il passante è chi si trova in un determinato luogo per puro accidens: è lì, ma non deve essere lì – se non nella misura in cui quel luogo lo porta altrove.

Il passante è sconosciuto, non ha crediti da esigere né doveri cui rispondere, la regola cui è soggetto è innanzitutto quella del caso. Ma la qualità della sua estraneità è peculiare, sicché egli è straniero ma non nemico: l’altra regola che lo riguarda è infatti quella dell’ospitalità, che può avere secondo la tradizione un valore anche profondissimo. In certe culture nomadiche, l’incontro fra due gruppi di diverse tribù (che quindi sono “passanti” gli uni rispetto agli altri) è regolato da norme che prevedono la condivisione di un pasto o lo scambio altre cortesie prima che le rispettive strade si separino nuovamente.

Il luoghi di passaggio godono della stessa ambiguità: i vestiboli delle case romane, così come il genkan di quelle giapponesi (anche contemporanee), sono spazi di utilità pratica (dove, ad esempio ci si toglie le scarpe) ma anche dotati di una funzione sociale precisa: è dove si accoglie il visitatore che si presenta solo per un breve periodo (un’ambasciata, una consegna) senza lasciarlo alle intemperie ma senza nemmeno concedergli l’accesso alla parte privata, personale dell’abitazione: ben più quindi di un semplice luogo da “attraversare” per passare dal “fuori” al “dentro”.

Il luogo o la persona di passaggio godono quindi di uno status particolare, sospeso, determinato da regole ad hoc le quali, in una certa misura, assumono persino una connotazione “sacrale”. E qui veniamo al secondo significato della parola passaggio: quello di cambiamento, mutazione, trasformazione. Lungi dall’esser casuale, il rito di passaggio segna il movimento da una condizione a un’altra in modo irreversibile e irripetibile. Il rito, in questa situazione, è di nuovo uno spazio-tempo sacro regolato da norme proprie e specifiche, spesso caratterizzato da una prova solitaria o da una pubblica promessa.

Pensando alla nostra società contemporanea verrebbe da dire che l’adolescente che entra la sera nel bosco da solo e ne esce la mattina seguente come uomo appartiene a una concezione persa, primitiva, che non ci riguarda più. Al contrario, i nostri riti di passaggio sono più occulti ma non meno efficienti: laurea (una prova) e matrimonio (una promessa) sono esperienze talmente potenti che in loro corrispondenza si verifica un aumento statisticamente significativo di esordi psicotici.

Ma molte forme psicopatologiche meno gravi della psicosi si manifestano nelle stesse evenienze, soprattutto quando viene sottovalutata una inevitabile realtà: ciò che saremo dopo la nostra notte nel bosco ci è sconosciuto e solo una cosa sappiamo per certa: nulla sarà più come prima.

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  1. bludinotte ha detto:

    Ho apprezzato…. tutto molto vero… andiamo sempre più verso una tribalità transitoria permanente piuttosto che la razionale gestualità rituale dell’essere!!

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