“Luke, sono tuo padre!”

Nel 1994 Einaudi pubblicava in un sottile volumetto i risultati di un concorso intitolato Una frase, un rigo appena. Scopo del concorso era scrivere in poche righe un racconto che avesse una storia e un senso compiuto. La raccolta veniva completata da una seconda parte in cui autori affermati selezionavano frammenti propri o di opere celebri che avessero la stessa caratteristica: contenere in poche frasi un’intera vicenda. Il libro è decisamente godibile, ma per stessa ammissione dell’editore non va oltre il divertissement: più si accorciano le storie, più si corre il rischio di scivolare verso l’aforisma, il motto di spirito o la ricerca dell’espediente.

Di lì a poco, l’emergenza del Web avrebbe regalato alla parola scritta una rinnovata giovinezza: chiunque poteva scrivere qualunque cosa ed essere letto da chiunque, ovunque, in qualunque momento. Il primo effetto di questa improvvisa emancipazione del testo scritto fu la grande abbuffata dei blog, i quali sarebbero però stati velocemente oscurati da modalità di comunicazione più sintetiche e più compatibili con una massa di informazioni esponenzialmente crescente ma accompagnata altresì da una soglia di attenzione sempre più bassa: quelle dei social.

Quando nel 2017 Twitter annunciò il raddoppio dei caratteri disponibili per un Tweet (da 120 a 240), avvenne un fatto singolare: gli utenti si sollevarono. La forza comunicativa di un tweet, si sosteneva, è proprio nella sua sintesi (figlia, per dirla tutta, dell’epoca dei costosissimi SMS degli anni Novanta). Può sorprendere che un gruppo di utenti si lamenti di avere maggiori possibilità: eppure, lo stile comunicativo online è diventato sempre più condensato, veloce, essenziale. Ha le caratteristiche più del “graffio” che del trattato; accenna, allude, si appoggia a un serbatoio comune di informazioni che viene dato per scontato e colpisce secco, fino a non prevedere neanche risposta, come nel caso di quella forma espressiva sostanzialmente nuova che è il meme.

Già da questi primi esempi iniziano a emergere due diverse possibilità di sintesi. Una è la capacità di “levare” parole, di lasciare solo l’essenziale senza però nulla togliere al contenuto (un lavoro, quindi, innanzitutto sulla forma – per esempio in un tweet informativo). L’altra modalità punta invece su un contenuto impreciso o puntiforme, in modo che ne venga amplificato il valore evocativo più di quello formale (come nel meme).

Il tema che abbiamo scelto per quest’anno (“In poche parole”) si dibatterà proprio in queste acque turbolente iniziando da una frase celebre e… sbagliata: “Luke, io sono tuo padre!”, che dà il titolo alla prima Officina, non è una citazione corretta. Ecco il testo esatto, per la cronaca:

–He told me enough! He told me you killed him!
–No. I am your father.

–Mi ha detto abbastanza! Che sei stato tu ad ucciderlo!
Io sono tuo padre.

Il successo della forma apocrifa è però tale da travolgere le intenzioni originali dell’autore: sin dall’uscita del film (L’Impero colpisce ancora, 1980), dopo il canonico silenzio salva-spoiler, è finita su tazze, magliette, adesivi così come in citazioni e parodie.

A cosa è dovuto il successo (inesauribile, ancora, dopo quasi quarant’anni) di una frase buttata là, peraltro errata, a metà di una trilogia di film di fantascienza?

La prima spiegazione riguarda l’arco del personaggio di Luke, che proprio nel secondo film segue un percorso di individuazione complesso e lacerante, solo per scoprire di non essere preparato (ma lo si è mai veramente?) ad affrontare ciò che lo aspetta. Il tema della paternità – un topos di tutta la letteratura ma quasi un’ossessione per la cinematografia statunitense – esplode nelle mani del personaggio e dello spettatore in modo dirompente: il mondo semplice del bianco e del nero diventa improvisamente più complicato e ci trova sostanzialmente disarmati.

In quel momento – non privo di certi stilemi da tragedia classica – Luke è vittima di tutto e di tutti: di una sorte beffarda che fa convergere gli eventi verso la catastrofe perfetta, della supponenza che lo faceva sentire invulnerabile, della sua ingenuità nel non aver saputo leggere i segnali più occulti, di un padre che sapeva, che lo ha condotto lì intenzionalmente, che lo ha voluto così: sconfitto. Nell’usare quell’“Io sono tuo padre” sempre in chiave comica dovrebbe venirci quantomeno il dubbio di avere una punta sadica. Oppure, più probabilmente, sentiamo la massa esplosiva dei conflitti di Luke come qualcosa che, in fondo, ci riguarda un po’ e che è più facile esorcizzare attraverso il registro della commedia.

C’è però anche una seconda spiegazione, legata meno strettamente alla vicenda del personaggio: la rivelazione di quell’unico segreto, di quel dettaglio, di quel solo fatto, costringe a una revisione di tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento: tutto ciò che credevamo – tutto il resto, cioè – non è (e non è mai stato) quel che credevamo. Quel frammento di verità getta nuova luce sui fatti e ci costringe a ri-vederli e a riconsiderarli. Le esperienze realmente trasformative, del resto, raramente rivelano “fatti nuovi”. Molto più di frequente ci portano a vedere “in modo nuovo” fatti noti.

Il tema di questa prima Officina è dunque pieno di “strati”: la paternità, il segreto e la rivelazione, il conflitto, la trasformazione, la sintesi. A proposito di quest’ultima, che ci accompagnerà per tutto il 2019-20, sottolineiamo però come non ci interessi una sintesi fatta semplicemente di elisioni e omissioni, né di evocazioni fini a sé stesse.

Cerchiamo, nelle frasi che sceglieremo, quella tensione fra due personaggi che sottende una storia: una storia che quella sola frase non basta a dire ma che, in realtà, in virtù di una irriducibile “sovrabbondanza”, a volte nemmeno un romanzo intero riesce a esaurire.

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