La letteratura amplia la capacità di fare esperienza
A che cosa “serve” la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi… a che serve? A che “mi” serve? Il rapporto tra la vita e la letteratura, in realtà, è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: “La letteratura è impossibile, bisogna uscirne”. Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell'”interiorità” autoreferenziale. L’aveva intuito anche Clemente Rebora: Lungi da me la scappatoia dell’arte. L’arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell’infinita vanità del tutto. Che farsene, dunque, di parole scarse, e forse senza sole, come le definiva Sandro Penna, o di qualche storta sillaba e secca come un ramo (Eugenio Montale)?
“Mi interessa la poesia che parla di grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo” aveva scritto il poeta e narratore statunitense Raymond Carver. La letteratura “serve” solo se ha a che fare, in un modo o nell’altro, con ciò che vogliamo veramente dalla vita, se entra in un rapporto forte e reale con la nostra esistenza concreta, le sue tensioni essenziali, i suoi desideri e i suoi significati.
L’uomo fa sempre l’esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell’orizzonte delle cose manipolabili. Ecco allora emergere il significato dell’opera letteraria. Essa è “una sorta di strumento ottico”, che consente al lettore di “sviluppare” ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. È questa, ad esempio, la convinzione radicale dello scrittore francese Marcel Proust. Il ruolo della lettura letteraria è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così essa diviene ingombra di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha “sviluppate”. La letteratura è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a che cosa “serve” la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a interrogarci sul suo significato e a comprenderlo. Serve dunque, in poche parole, a fare veramente ed efficacemente esperienza della vita.
Un’altra bella immagine per dire il ruolo della letteratura è quella “digestiva”. Il suo modello è la ruminatio della mucca, come affermavano il monaco Guillaume de Saint-Thierry (XII sec.) e il gesuita Jean-Joseph Surin (XVII sec.). Quest’ultimo a sua volta parla di “stomaco dell’anima”. Michel De Certeau, gesuita anch’egli, ha addirittura indicato una vera e propria “fisiologia della lettura digestiva”. Si può pure dire che la lettura sia uno “stomaco per digerire la realtà” (Pier Vittorio Tondelli). La letteratura è quel linguaggio capace di “trasformare in sé” il mondo e le esperienze: si tratta di una forma di assimilazione. Ecco: la letteratura serve a dire la nostra presenza nel mondo, a “digerirla” e assimilarla, a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto.
Serve dunque a interpretarla, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Scrivere poesie, romanzi, racconti, persino fiabe è in se stesso un atto di decifrazione del mondo in cui si vive. Chi legge viene in contatto con questo lavoro di decifrazione, ed è egli stesso coinvolto in questo compito. Viene come “contagiato” a vivere lo stesso processo, sollecitato a guardare la realtà, anche quella personale, con occhi più acuti alla ricerca di simboli, valori, significati. Quando si legge, il campo della nostra esperienza si amplia perché “viviamo” cose che altrimenti mai potremmo o vorremmo vivere. Cresce la comprensione dell’uomo e anche la capacità di discernere le emozioni che lo agitano e lo spingono ad agire e a scegliere.
Questo di Antonio è indubbiamente un contributo determinante a proposito della questione della critica letteraria attuale, sollevata da Stas’ nel post precedente. redo che sia quello che le persone intellettualmente fini hanno sempre sentito, pur senza teorizzarlo in modo argomentato, quello che ha fatto sì che venissero privilegiati i poemi omerici rispetto ai poemi ciclici, Virgilio rispetto ai poeti epici suoi contemporanei di cui non abbiamo più nulla e così via. Poi, nei tempi moderni, le valutazioni critiche sono state conseguenti a sistemi filosofici e a posizioni ideologiche e quindi artificiose, funzionali a teorizzazioni. Oggi ce ne siamo liberati (e forse per sentire la felicità di questa liberazione, soprattutto dalle ideologie, bisogna avere la mia età!) e possiamo liberamente impegnarci a rivedere tutta la questione del valore e della valutazione delle opere letterarie.
Per me il punto centrale, il valore della letteratura, quello decisivo, è Se e COME un testo mi fa fare una esperienza, cioè mi fa conoscere e sentire davanti al mondo. Per dirla con Pavese: «Ogni poeta s’è angosciato, meravigliato e ha goduto. L’ammirazione per un gran passo di poesia non va mai alla sua stupefacente abilità, ma alla novità della scoperta che contiene» .
Se poi la novità consiste nello scoprire improvvisamente un punto di incontro tra il visibile e l’invisibile ovvero se la letteratura ci porta al confine tra la nostra storia e il dominio indicibile e infinito a cui, anche solo per un attimo, veniamo esposti quando viviamo un’esperienza estetica significativa, allora la letteratura ci offre un tesoro che nessuna filosofia o ideologia o pensiero colto potrà mai regalarci.
Tutto questo è già detto e scritto nel Manifesto di Bombacarta, ma ciò che è già stato detto e scritto a nulla serve se non viene vissuto nuovamente, come se fosse la prima volta. La ripetizione dell’esperienza è fondamentale, riscoprire – ogni volta che ci si accostiamo ad un’espressione artistica – quel sussulto di gioia e di consapevolezza in cui consiste la pienezza del “vedere” chiaramente.
Credo che Pavese avrebbe avuto un altro destino se avesse avuto almeno un amico con cui condividere una fruizione della letteratura libera da schemi preconfezionati. Le frasi che cita Antonio sono in netta contraddizione con quella sensazione di isolamento e di tragica necessità che lo ha stretto in un assedio mortale. Nella letteratura sapeva cogliere ciò che c’era di bruciante, ma forse intorno a lui la gente, pur tra i tanti ideali del dopoguerra (e forse proprio a motivo di questi), congelava la vitalità a favore delle idee, degli schieramenti, di correnti letterarie e artistiche che già portavano dentro il germe del conformismo ovvero di una soffocante chiusura d’orizzonti. A lui piaceva, tanto per dirne una, la prosa ardita e fuori dagli schemi di Melville che gli dava l’occasione di denunciare l’atrofia di una letteratura europea troppo spesso contaminata da pensieri politicamente corretti (Un greco veramente è Melville. Voi leggete le evasioni europee dalla letteratura e vi sentite più letterato che mai, vi sentite piccino, cerebrale, effeminato: leggete Melville e […] vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e più uomo).
“L’arte è uno schema puro d’esperienza” (Susan K. Langer)
L’unico luogo in cui la forma ha diritto di cittadinanza: il quotidiano, la storia e la scienza sono piuttosto il uogo del frammento, del segmento consecutivo, del rimando infinito. Se possiamo abitare un mondo, è nel mythos (racconto) che possiamo abitarlo. Se possiamo liberare l’ammirazione per la bellezza del mondo e per l’imperscrutabile orrore della sua finitezza, è perchè nel racconto esso si lascia rappresentare. Se possiamo rifletterci come in uno specchio, che interpreta e orienta il nostro andare, è perchè la forma è simbolo, una delle due metà: l’altra è il lettore. Nascendo come lettore, io nasco come libertà.
“Au fond de chaque mot j’assist à ma naissance”
(Joe Bousquet)