Il Convegno di Reggio Calabria / 03 – Un libro… rovesciato
In genere le presentazioni di libri ai convegni sono un po’ come il prezzemolo: tappabuchi garbati, spezie colorate che non decidono del sapore della pietanza principale. Non è stato il caso del convegno di Reggio Calabria: i tre titoli presentati – uno per giornata – si sono richiamati tra loro in una maniera davvero sorprendente. A partire dai titoli: il rovescio, gli appunti, l’incompiuto… tre parole che dicono parzialità, “work in progress”. E poi i temi affrontati. Il male e la poesia, come due frecce convergenti a indicare lo stesso punto: il mistero di un’incompletezza universale che non si lascia zittire. Una triangolazione eminentemente baudelairiana.
Alla prima presentazione (G. Cucci – A. Monda, L’arazzo rovesciato, Cittadella) è già il contesto a parlare: siamo nella chiesa di San Giorgio, che occhieggia dal suo destriero in un quadro discretamente posto a lato. Al centro infatti c’è, almeno per il momento, “l’enigma del male”. Così si sottotitola il saggio, accompagnato dalla citazione di Paul Ricoeur: «Il male non si può spiegare, si può solo raccontare». Un’affermazione perentoria, che senza colpo ferire licenzia secoli di teodicea e stende il tappeto rosso al romanzo del Novecento. O forse no. In fondo già il profeta Natan, quando deve ricondurre il re Davide a se stesso, deve ricorrere a un racconto. E infatti Davide riconosce immediatamente il male («Colui che ha fatto questo merita la morte!»). Solo che non riconosce di esserne l’autore («Tu sei quell’uomo!»). Cosa strana, il male. Qualcosa che – lo scriveva già Kafka – una volta accolto in noi non domanda più che gli si creda. Nasce da un vuoto di fantasia che va via via ampliandosi. Anche tutta la storia di re Davide, in fondo, nasce da un uomo impigrito che non sa come trascorrere le proprie giornate a palazzo. La scelta è la più ovvia e scontata: una nuova concubina. Al contrario di quel che si pensa, «l’inferno ha una immaginazione limitata» (Walter Miller jr.).
Al racconto di Davide racconto se ne affianca però un altro, quello del Signore degli Anelli: qui è la compagnia a salvare. Lo stare insieme – pure limitatissimo, con tradimenti, inadeguatezze e scioglimento precoce – è l’unica salvezza possibile contro le due Torri solitarie (Saruman e Sauron), apparentemente imbattibili, e invece ancora più fragili. Perché nessuno, da solo, può resistere a lungo al male: la questione non è mai non cadere, ma se e come rialzarsi. In fondo le colonne della Chiesa sono un traditore e un assassino, Pietro e Paolo; e il primo a entrare il paradiso – se bisogna dar un qualche credito a Dio – sarebbe un reo confesso. Occorre accettare perfino il male come compagno di viaggio. Non per accondiscendervi, ma per attraversarlo: tanto, ci piaccia o no, verrà con noi comunque… sgraziato e appiccicoso come Gollum. Anche perché la strada verso la meta conclusiva noi non la conosciamo, ma lui sì. Come dice Ismaele, una volta a bordo del Pequod, «pur non ignorando il bene, so riconoscere subito l’orrore, e potrei anche socializzare con esso, se me lo si consentisse, poiché è bene essere in rapporti amichevoli con tutti gli abitanti del posto in cui si alberga». La rimozione è una strada inutile, peggio, dannosa: come racconta la parabola della zizzania, il tentativo di cancellare il male creerebbe un male ancora peggiore. Non si possono sfilare impunemente alcuni fili dell’arazzo senza intaccare l’intero disegno. Bisogna accettare la complessità e imparare a conoscerla. Discernere. E un giorno si potrà vedere anche l’altro lato dell’arazzo, quello nascosto. Poiché «la trama nascosta è più forte di quella manifesta» (Eraclito).
(prima parte – continua…)
Grazie grazie grazie!
che meraviglia! le immagini scelte a corredo sono splendide ma soprattutto il racconto di Paolo è magnifico… ma davvero abbiamo detto (e scritto) tutte queste cose così belle?
Dall’accettazione del male come compagno di viaggio possiamo dedurre la sua identificazione con il viaggio stesso? Possiamo affermare che esso è il nocciolo noumenico della narrazione stessa? Se guardiamo ad alcune opere archetipiche della nostra letteratura come i poemi epici antichi (Odissea, Eneide) o la Divina Commedia l’esplorazione del mondo coincide con la sperimentazione del male, che gli eroi devono attraversare in un cronotopo orizzontale (Odissea e Eneide) o verticale (Divina Commedia) dimostrandoci che l’eroe non è colui che coltiva la sua purezza ma colui che la contamina col male per rafforzarla. L’esperienza del male è perciò alla base dei percorsi di formazione, dei bildungsroman epici e romanzeschi. Ma mi chiedo e chiedo: cosa trovano gli eroi al di là del male? quale la risposta al di là del varco: il bene? Il bello? Il senso del sacro?
Non si può individuare una risposta univoca: ma se l’esplorazione del mondo prevede la conoscenza del male, l’esplorazione della letteratura prevede la scoperta di cosa l’arazzo non solo rappresenta, ma allude e nasconde.
Non posso rispondere così su due piedi, le domande che poni sono da far tremare le vene ai polsi, però mi hai fatto venire in mente due frasi di due letterati così diversi..:
1) T.S.Eliot tratta dal 4^ dei ” 4 quartetti”: “Non cesseremo mai di esplorare/ e la meta di tutte le nostre esplorazioni/ sarà di arrivare al punto di partenza/e conoscere il luogo per la prima volta”;
2) Henry Miller: “la meta non è un luogo ma un nuovo modo di vedere le cose”.
ciao, per ora, ciao! andrea
Per F. O’Connor la narrativa è il farsi strada della grazia «in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». C.S. Lewis faceva l’esempio di un regno da riconquistare e strappare dalle mani dell’usurpatore. I. Calvino invocava la creazione di oasi di «non-inferno». Il mondo ci appare deformato, corrotto, sviato dalla sua finalità originaria. “Non dovrebbe essere così”, pensiamo. L’incontro con una porzione di essere contraddittoria perché si oppone all’essere stesso – ossia con la pervasività parassitaria del male – è qualcosa di obbligatorio solo perché inevitabile.
Ma il male… è lo sfondo o il motore del viaggio? Gli eroi di Ulisse, Virgilio, Dante… desiderano: vivono la tensione a una mèta, anche se non chiarissima e mutevole. Credo sia questo loro oscuro volere che li spinga al movimento – orizzontale o verticale – altrimenti c’è solo un perenne brancolare in un labirinto tenebroso. Forse il male è qualcosa come le onde sulle quali, pure sospingendoci a riva, è possibile stare a galla e muoversi proprio grazie alla resistenza che ci offrono. E’ vero, Emanuela, il viaggio non è compatibile con una perfezione autoreferenziale, sterile e sterilizzata: per coltivarla occorrerebbero l’immobilità, la staticità, l’immutabilità. In questo senso, solo la morte è “pura”. Solo il nulla.
Il racconto di viaggio che amo di più è il “Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez” nelle Operette Morali… vero attraversamento della “stanchezza di navigare” quando non si scorge l’apparire della mèta agognata. «In somma – conclude Colombo – tutti questi segni raccolti insieme, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona». Pure attraversando il male, eroi sono coloro che non si arrendono perché danno credito agli indizi luminosi, frecce indicatrici che guidano la loro strada. E per questo «vanno lieti nel buio» (G.K. Chesterton, La ballata del cavallo bianco).