La pelle 

Mi sembra solo ieri che credevo
che sotto la pelle non ci fosse altro che luce.
Se mi tagliavi non potevo che splendere.
Ma ora quando cado sui marciapiedi della vita,
mi pelo le ginocchia. Sanguino.

“Compiendo dieci anni”, Billy Collins

È con la strofa finale di questa poesia che vogliamo segnare il passaggio dal sangue — tema dello scorso mese — alla pelle. Come abbiamo visto, il sangue è ciò che scorre fluido nei nostri corpi, ed è ciò che scorrendo ci unisce gli uni agli altri. La pelle, di contro, ci separa: è un confine fra corpi, ci distingue gli uni dagli altri e dunque ci rende individui.

1. Ricoprirsi

The Fall of Man, 1616, Hendrick Goltzius

Nel suo saggio Nudità e pudore la rabbina Delphine Horvilleur riporta alcune interpretazioni di un famoso passo biblico: la cacciata dall’Eden. Nello specifico, il passo in cui Dio decide di cucire per Adamo ed Eva delle “tuniche di pelle” con cui rivestirli. Secondo alcuni commentatori biblici, tale tunica «non sarebbe altro che la pelle stessa dell’uomo». È una lettura che suggerisce un’esistenza “a-dermica” dell’umanità nell’Eden, in cui semplicemente la natura umana era priva di membrana dermica. Donandogliela, Dio avrebbe così voluto rendere l’essere umano confinato nella sua pelle, separato dal mondo circostante. 

La caduta avrebbe reso possibile l’individualità. Ma essere individui significa dover fronteggiare la nostra incostanza nell’esistenza: mentre una divinità è sempre uguale a se stessa, l’uomo cambia in continuazione. Per questo abbiamo rapporti così difficili con la nostra identità; una volta compreso che siamo gli uni distinti dagli altri, sapere in cosa consiste questo “uno” si rivela un compito più arduo del previsto. Ad un certo punto ci accorgiamo che col passare del tempo cambiamo pelle

E mentre il serpente muta e si lascia indietro la propria pelle come se niente fosse, per noi non è né così evidente né così semplice. 

2. Scorticarsi 

C’è una fiaba di Giambattista Basile del 1634, intitolata La vecchia scorticata: racconta di due sorelle, vecchie e brutte, che si ritrovano quasi per sbaglio ad ingannare un re. Egli crede di aver a che fare con una bellissima fanciulla e l’inganno si spinge fino a far finire una delle due sorelle dentro il suo letto, nascosta dalle tenebre della notte; qui il re crede di godersi la sua Ninfa, per poi scoprire con orrore un’Arpia. La vecchia finisce lanciata fuori dalla finestra, ma la fortuna l’assiste: rimane impigliata ai rami degli alberi per i capelli. Così conciata, farà ridere delle fate che passavano di lì e che per questo la trasformeranno in una bellissima fanciulla. Neanche a dirlo, quando il re se la ritrova davanti la vuol subito sposare. E al matrimonio è invitata anche l’altra povera sorella, rimasta vecchia e raggrinzita, che appena vede la sorella, per tutta la sera le chiede «Come hai fatto, sorella mia, come hai fatto?». Finché la sposa, esasperata, risponde: «Mi sono scorticata, sorella mia!».

Desnudo (Pose con brazos conformando un trapecio), José Clemente Orozco (Mexican 1883-1949)
José Clemente Orozco

Mai parole furono più funeste. La vecchia sorella, impaziente di cambiar pelle anche lei, va da un barbiere e gli offre cinquanta ducati per essere da lui scorticata. Tanto insiste e tanto è sicura di ciò che chiede, che alla fine il barbiere cede.

E, postala a sedere a uno sgabello, cominciò a far macello di quella nera corteccia che piovigginava e grondava tutta sangue; e, di tanto in tanto, salda come se si radesse, diceva: «Uh! Chi bella vuol parere, pena vuol sostenere!».

“Lo cunto de li cunti”, Giambattista Basile

La vecchina morrà, ovviamente. Ma il detto “chi bella vuole apparire, un poco deve soffrire” è sopravvissuto fino ai giorni nostri. 

3. Svelarsi

Il rapporto con la bellezza equivale spesso al rapporto che abbiamo con la nostra pelle: essa è la nostra superficie, è ciò che appare — contrapposto a ciò che è.

Il modo in cui ci occupiamo del nostro aspetto esteriore è fondamentale, perché rappresenta la scelta che facciamo nell’apparire. È questa una scelta che si articola in due vie: possiamo cercare modi per apparire come siamo — nei limiti di ciò che sappiamo di essere — oppure possiamo allontanarcene il più possibile. Mentre un nostro cantautore contemporaneo canta «e mi trucco perché la vita mia / non mi riconosca e vada via», la storia ci insegna che il trucco è un’arte molto antica e portatrice di innumerevoli significati: dalle tribù preistoriche all’antico Egitto, dai Greci ai Romani.

Ricoprire la propria pelle, che sia col trucco o con i vestiti, non è solo un nascondersi; anzi, a volte è proprio un modo per svelarsi.

D’altronde c’è stato chi ha avuto un rapporto radicale con la propria pelle, come l’attrice Anna Magnani che con un paio di frasi rese la vita del suo truccatore piuttosto faticosa: «Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!».

4. Ricordarsi

A questo punto viene da chiedersi: c’è un modo per riappacificare il complesso rapporto che ognuno di noi ha con la propria pelle? 

In realtà è proprio Magnani a suggerirci una strada, quella della pelle come memoria. Ogni ruga, ogni neo, ogni cicatrice che la nostra pelle ha non è altro che la testimonianza del nostro vissuto. Sta noi decidere se lasciarlo esposto agli occhi degli altri o tenerlo nascosto.

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