Corpo a corpo con Carver

Dopo vent’anni di «corpo a corpo» con uno scrittore è possibile capire se e come la sua opera ci ha lavorato dentro. E io non me ne sono mai liberato. Ti spia, sta in agguato con le sue suggestioni e i suoi suggerimenti. Quella di Raymond Carver è una scrittura che si apposta nel tuo quotidiano e lo spacca a metà. Compie un intimo discernimento tra ciò che è autentico e ciò che non lo è.

E che cosa è autentico? È la vita che merita davvero di essere vissuta. Ci sono esperienze di fronte alle quali non ci si può sottrarre se non negando la vita stessa, che è vita umana, veramente umana: calda, innervata, capace di provare piacere e dolore, angoscia e gioia. L’esperienza può essere semplice – ma mai banale! – o complessa, leggera e pesante, ma se è umana allora è «vera», cioè dice una verità sulla vita, su tutta la vita. Ogni singola esperienza: la gioia di una pesca o quella di un amore corrisposto, o viceversa l’angoscia per la malattia o per una separazione. Queste sono tra le esperienze che Carver fotografa con un understatement of emotion che fa brillare il senso e fa capire.

Rileggere dopo vent’anni l’opera di Carver è scioccante, devo essere onesto su questo: capisco che ha della legna proprio al centro e dunque bisogna mettersi i guanti prima / di maneggiarla. A 34 anni – a quell’età ho scritto questo libro – si è adulti ma ancora giovani. A 54 uno è adulto ma già maturo, nel senso, come Ray scrisse, che conosce il valore delle cose  (the worth of things). Forse. E la prima cosa che risuona in mente di tutta la sua opera è la commozione davanti alla vita, e soprattutto la sua ultima poesia, «Ultimo frammento», che è da leggere subito:

E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì. E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.

Qui c’è il giudizio universale. A 34 anni ci si può ancora chiedere: che cosa voglio dalla vita? A 54 anni ci si comincia a chiedere: che cosa ho ottenuto? Ed ecco la domanda: ti puoi dire amato sulla terra?

Da quell’ultima poesia – e da questa domanda – bisogna iniziare per capire Carver e la «commedia umana» che si compone tra poesia e racconti, dove i personaggi sono quelli della vita ordinaria. Ciascuno di noi può riconoscersi in almeno uno di essi. Sfido chiunque a non ritrovarsi comodi nei suoi racconti. Le storie umane mostrano i nervi della loro sentimentalità che emerge dai singoli gesti, dalle singole storie. Manca del tutto l’ideologia dalle pagine di Carver. I corpi e i loro gesti fanno da argine a ogni astrazione. Carver invece è molto interessato all’arte che dice qualcosa del mondo e non lo è invece all’astratto. L’arte deve tornare alle cose che contano, «le cose che sono vicine al cuore dello scrittore, le cose che ci muovono interiormente», scrisse una volta. Ed ecco che oggi Carver mi richiama alle cose che contano davvero perché una vita matura non può farne a meno.

A 54 anni non se ne può più di discorsi ideologici sulla vita, né di parole formali e vuote sull’esistenza. Bisogna essere onesti. Non ci si può più girare attorno. La vita può promettere ancora tanti anni, ma si ha il bisogno di «stringere». Si vuole toccare l’osso o almeno capire se un osso c’è che regga la carne, i nervi, i vasi sanguigni e il grasso della vita. Carver ti aiuta a fare questo: a non perderti. A riconoscere che cosa ti tiene in piedi. O se invece c’è un fallimento in corso. Ed è il caso di correre ai ripari per dare dignità alla propria vita.
La vulnerabilità è una chiave forte del suo discorso. I suoi personaggi sono eroi, ma brillano per la loro capacità di essere scalfiti dalla vita. E il sentimento è l’eco di questa vulnerabilità, che è anche la base di una vita felice perché premessa della tenerezza, così importante per lo scrittore.

Carver ha certamente dimostrato che non c’è bisogno di allontanarsi molto dalle proprie esperienze, dalle mura di casa propria o del proprio bar o posto di lavoro, per raccontare storie che colpiscano nel profondo. Vivere significa guardarsi attorno, per trovare lì la fonte dell’ispirazione. Questo mi ha insegnato Carver in questi anni: trovare storie dappertutto. E a leggere la mia vita in termini di storie, e non certo di obiettivi e risultati raggiunti. Puoi raggiungere risultativi ragguardevoli e vivere una vita che è un totale disastro. E Carver come lo fa? Da narratore o da poeta? È una questione che ho risolto dando retta a ciò che egli stesso ha detto una volta: «Io ho cominciato come poeta e così suppongo che sulla mia tomba dovrei essere molto contento se ci fosse scritto: “Poeta, scrittore di racconti e, occasionalmente, saggista. In quest’ordine”». Quindi prima poeta, anche se certamente è più noto come narratore.

Carver è innanzitutto poeta perché le immagini potenti e quotidiane che emergono dalle sue opere nascono dal saper mettere in fila le parole giuste, ma anche la punteggiatura più efficace e corretta, in modo che il lettore sia trascinato dentro e coinvolto nella storia. Storie, immagini, parole, punteggiatura: questa la sequenza. Sono le storie che generano le immagini, le sprigionano come istantanee inesauribili. Se non ci sono storie vissute, ma solo immagini o idee non c’è sostanza. L’amore, ad esempio, tema chiave per Carver, non è un sentimento, ma sempre una storia che va raccontata con le parole giuste. E le più essenziali. Lo sguardo fisso e commosso, capace di cogliere l’essenziale nelle cose, guardate con acutezza e precisione è la radice dell’ispirazione delle storie di Carver. E si racconta con le parole.

Nell’ultimo discorso pubblico prima della sua morte, Carver prese le mosse da un pensiero «limpido e bellissimo» di santa Teresa d’Avila tratta dal capitolo XXV della Vita scritta da se stessa: «Le parole muovono ai fatti… Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza». Teresa per sé si riferiva alla parola di Dio che è sempre accompagnata da effetti: es palabras y obras, scriveva. Questo legame tra parole e opere, fatti, vita è radicale. Il lavoro sulle parole per Carver è sempre un lavoro sulla vita. E viceversa. Capisco dopo questi venti anni che davvero, quando si vive una esperienza forte, si ha bisogno di raccontarla o almeno di raccontarsela come se ci fosse qualcuno ad ascoltarla. Ce la si racconta nella mente tante volte, se ne studiano i dettagli a occhi chiusi. A volte si fa rewind e si guardano i fatti al rallentatore e si cambia versione perché ci si accorge di dettagli ai quali non si era fatto caso. Ed è un lavoro di lima pazzesco perché mentre si raccontano le vicende le si comprendono. Se le si raccontano in un altro modo, si comprendono in un altro modo.

Carver mi ha aiutato a raccontare bene le cose, ad andare avanti e indietro nei ricordi per aggiustare il racconto. E a capire perfino che a un certo punto puoi scoprire che il tuo racconto non regge. La vita sorprende, e allora devi capire le cose in un altro modo o almeno lasciare spazio al mistero della vita che a volte confonde. Io a 34 anni non lo avevo ancora capito. Forse lo capisco proprio adesso.

[brano estratto dalla prefazione del libro di A. Spadaro, Creature di caldo sangue e nervi. La scrittura di Raymond Carver, Edizioni Ares, Milano, 2020]

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  1. Valentina Augello ha detto:

    Leggerò il libro.
    La presentazione mi ha fortemente colpita. Ed anche la scelta del titolo del libro… dove si parla di sangue e nervi….sangue e saliva direi più che nervi… sangue e saliva che evocano la sessualità, l’energia creativa, il furore… una forza che ti spinge a combattere per ottenere dei risultati… una forza che è positiva per certi versi… ma anche terribile, feroce.
    A volte ci fermiamo… a 54 anni?
    Non so se bisogna aspettare di superare i cinquant’anni per fermarsi…
    A volte ci fermiamo… a guardare la vittoria e la distruzione, l’ordine e la quiete, il silenzio, il vuoto, il nero ed il cielo e la furia che ha invecchiato il nostro corpo e se ne è andata (almeno per il momento).

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