Un arcobaleno senza tempesta, questa sì che sarebbe una festa

Nel 1975 la cantante più reggae dell’allora panorama musicale italiano, Junie Russo, esce alla ribalta con un 45 giri che porta inciso sul lato principale una canzone dal titolo Everything’s Gonna Be Alright: altro non è che la cover di un più famoso brano cantato da Dee Dee Warwick 10 anni prima, We’re Doing Fine e che il pubblico ha molto aprrezzato per l’interpretazione di P.P. Arnold del 1967.

Pochi anni dopo, nel 1977, Bob Marley, insieme con The Wailers, nel secondo lato dell’album Exodus canta Three Little Birds: questo brano rappresenta il canovaccio da cui deriveranno in qualche modo nel 2006 – sempre ad opera di Bob Marley and the Wailers – l’album e la canzone omonimi: Everything’s gonna be alright.

Il testo di tutti questi brani appena citati, nelle sue piccole o grandi variazioni di titolo o di versi, è un invito a non preoccuparsi troppo di ciò che sarà, a non curarsi del destino che attende ogni uomo: una specie di carpe diem in musica che recita “andrà tutto bene”.

Un refrain, questo “Andrà tutto bene”, che, nato nei favolosi anni ’60, ci ha accompagnato in questi ultimi mesi e che vive, in fondo, di una non soluzione di continuità: in occasione della pandemia, tuttavia, il suo carattere si è fatto di immediatezza ed urgenza. Insomma, sembra che non potesse essere che così: di fronte alla tragicità e alla difficoltà ci si consegna interamente al desiderio di qualcosa di confortante.

Il “motto” ha avuto, nel nostro paese in particolar modo, una declinazione tutta musicale: fin dai primi giorni di quello che è stato chiamato lockdown, dai balconi degli italiani si è diffusa l’abitudine verso l’ora del tramonto, di mettere in scena un momento quotidiano di relax e condivisione, basato sul canto e sulla musica.

Perché gli italiani, come ci ricorda l’austera scritta sul palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, non sono solo “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Ma anche un popolo di cantanti, di musicisti, volendo estendere il concetto di artisti e poeti e moltiplicarlo nelle diverse accezioni che proprio questo periodo di “stasi obbligatoria” ha fatto emergere.

Un “motto” che è stato anche fisicizzato, diventando nell’immaginario di tutti, grandi e piccini, il disegno di un arcobaleno. Insomma, un simbolo. Che ha un’eredità lunga, importante, a volte anche ingombrante, ma che possiede il pregio della freschezza e della spontaneità. Un’immagine parlante.

Questo è il motivo per cui ho pensato a Gianni Rodari e alla sua filastrocca “Arcobaleno”: se vi va, riprendete Filastrocche in cielo e in terra (1960) e leggetela con gli occhi di oggi. Vi apparirà più di un’immagine parlante.

Troviamo l’arcobaleno già nella Genesi (9,13) come un segno del patto tra Dio e l’umanità: Dio lo fece apparire nel cielo dopo che Noè e la sua Arca erano sopravvissuti al diluvio universale, come promessa che non avrebbe mai più inondato la terra.

«Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi, e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne».

L’arcobaleno è, nella fisica della meteorologia, un fenomeno ottico dovuto a rifrazione e riflessione della luce solare attraverso gocce di vapore acqueo diffuse nell’atmosfera (dalla pioggia, dalla nebbia o dallo zampillo di una fontana o di una cascata) che si decompongono nei colori dello spettro solare, dal rosso nella parte più esterna all’azzurro e al violetto in quella più interna. I primi studi su questi fenomeni della rifrazione della luce si devono ad Isaac Newton che, come spesso accade, inciampò casualmente in questa scoperta. Aveva acquistato al mercato di Cambridge un prisma di vetro e, una volta tornato a casa, gli capitò di giocherellarci in una stanza buia, trovando che un raggio di luce filtrato in un punto specifico “tirava fuori” uno spettro di colori sempre più definito: i 7 colori dell’arcobaleno, appunto.

Nella sua duplice veste di fenomeno e di simbolo l’arcobaleno è una sorta di legame fra cielo e terra dato da una scia di luce e di colori: una rappresentazione di fiducia e di forza al tempo stesso.

Nel film culto Il Mago di Oz (1939) la bellissima Judy Garland, che è la protagonista della storia, Dorothy, viene rimproverata dalla zia perché troppo incline alle fantasticherie. È in questo punto della pellicola che Dorothy canta la canzone poi diventata celeberrima, “Over the rainbow”, un brano che le fa esprimere il desiderio di trovarsi altrove, lontano, in un luogo incantato dove tutto è azzurro, cielo e uccellini, e tutti sono felici.

Inizialmente la canzone sembrò non convincere troppo i produttori ma alla fine (anche qui possiamo dire come spesso accade) il brano vinse un Oscar. Alla sua composizione – il titolo originario era “Over the Rainbow is where I want to be” – partecipò anche Gershwin e la fama che il pezzo si guadagnò nel tempo è davvero ragguardevole.

Nel 1967, è la volta di Louis Armstrong che porta al successo la canzone “What a wonderful world” diventata un vero mito grazie ad una magistrale interpretazione di Satchmo. Il testo presenta notevoli punti di contatto concettuali con “Over the Rainbow”, non solo per l’atmosfera e l’utilizzo dei termini, ma per ragioni storiche. Entrambe le canzoni sono state realizzate in periodi dove il contesto politico e sociale ha influenzato il bisogno di serenità. “Over the Rainbow” nasce nel momento del New Deal americano del presidente Roosvelt e “What a wonderful world” nel momento più delicato delle lotte per i diritti civili, dell’assassinio di Martin Luther King, delle rivolte razziali e della guerra in Vietnam.

https://www.youtube.com/watch?v=CWzrABouyeE

Molte sono state le cover di questi successi: indubbiamente dobbiamo all’hawaiano Israel Kamakawiwo’ole e al suo ukulele l’interpretazione più nota e forse più amata del medley dei due brani.

Tutto bene? La verità è che, per tornare a noi e al nostro momento storico, non è andato davvero tutto bene. Ciò che però consola (non è un verbo “azzeccato” ma in questa circostanza “funziona”) è il fatto che il “motto”, replicato in tante altre nazioni non solo europee, si è posto fin da subito in una prospettiva salvifica e futura. Il tempo del verbo non è stata una questione di poco conto: ha proiettato in avanti e ha sostenuto. Ha affermato e ha ascoltato i bisogni delle persone. Ha risposto in qualche modo a domande e quesiti. Non ha frenato l’onda di dolore e difficoltà. Eppure, ha svolto una piccola, ma importante funzione “ecumenica”.

Non è una questione di ottimismo a tutti i costi: vince purtroppo e senz’altro il realismo doloroso di ciò che è accaduto in mesi lunghi, difficili e pesanti. Ma apre uno spiraglio; può trasformarsi in una opportunità.

Durante la quarantena forzata di emergenza coronavirus, “Andrà tutto bene” è diventata anche una canzone tutta italiana, che i due cantautori Elisa e Tommaso Paradiso hanno composto basandosi sulle proprie pagine social e includendo la partecipazione dei fan; sono poi state inserite le voci dei bambini, arrivate da tutta Italia (video qui).

Il pezzo, inoltre, ha sostenuto la campagna di comunicazione del Governo a favore delle attività del dipartimento della Protezione Civile.

Anche in questo caso il testo è semplice, immediato: parla al cuore.

Ammettiamolo. Non è affatto andato tutto bene. Questo, tuttavia, non ha impedito al mondo di perpetuare il suo moto. E al silenzio di far pensare, alle lenzuola di sbandierare al vento, agli occhi di sorridere, anche dietro la mascherina.

C’è un’assonanza incredibile fra questa atmosfera di speranza, di realtà e la canzone di Adriano Celentano, “L’arcobaleno”, del 1999.

In una strofa Mogol e Gianni Bella scrivono:

Io quante cose non avevo capito

Che sono chiare come stelle cadenti

E devo dirti che è un piacere infinito

Portare queste mie valigie pesanti

Non si sarebbe potuto dirlo meglio.

 

 

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