Il bambino con il pigiama a righe.

Paola Padula sul film di Mark Herman

Bruno ha otto anni. Sua madre ha la pelle chiara, liscia come porcellana. Suo padre, la divisa delle SS. La sua sorellina ne ha dodici, e si è invaghita del generale con i baffi, gigante immortalato tra le pareti della sua cameretta.
Io, invece, sono seduta in terza fila, da sola, al buio, su di una poltrona comoda, con il poncho che mi fa da coperta, per allontanare i brividi.
Non è abbastanza riscaldata, la sala di questo cinema. Eppure è piccolina. O sono io che ho sempre freddo, quando son seduta a guardare.
Bruno intanto si annoia in quella grande casa anonima, grigia come una caserma. Lui non ha più i suoi amici per volare ad esplorare l’avventura, librando le braccia come gabbiani.
Li ha dovuti lasciare, ha dovuto lasciare Berlino. Il suo papà ha avuto una promozione. Dovrà sovrintendere a dei lavori di rimozione presso un campo fuori mano, soprannominato la “Fattoria”.
Esce tanto fumo da lì, sistematicamente, e Bruno se ne accorge, mentre si spinge in alto sulla ruota volante, la sua altalena.
Shmuel è dall’altra parte, e tra poco lo conoscerà. Gli porterà del buon cibo, gli osserverà la testa rasata, le occhiaie sotto gli occhi tristi, il sorriso digiuno dell’allegria, il pigiama a righe bianche e nere, col numeretto sul taschino.
Un filo spinato li divide, ma loro possono giocare a dama lo stesso. Basta avere l’intelligenza, e le ali. Basta essere amici.
E’ il segreto di Bruno, mentre la sua mamma comincia a diventare sempre più pallida e provata, persino nei capelli.
Lei litiga col papà, gli grida piangendo che non sapeva. Lei non sapeva che, per migliorare la Germania ed il mondo, fosse necessario arrivare a tanto.
Ma Bruno un giorno vede, spiando di nascosto, un filmato su quel campo. Suo padre lo sta guardando insieme agli altri colleghi, ridendone insieme. Le bimbe saltano contente tra i sassi, si usa prendere il caffè ed avere tanto tempo libero da dedicare allo svago, alle proprie occupazioni preferite.
Quella fattoria non è un posto cattivo, e papà non è un mostro. Lui fa bene il suo lavoro, e sa pensare a tutto, accontentando tutti. Allora ti abbraccio, papà, ti stringo forte, e non ti lascio più.
Ma le nuvole di fumo continuano ad intorpidire il cielo, e Shmuel è sempre più smunto ed abbacchiato. Non gli basta la cioccolata. “Chi c’è, lì con te, in fondo, nel campo. Ti invidio, sai. Lì siete in tanti, si vede. Meno male che ci sei tu. Ho portato il pallone”. “No, non lanciarlo oltre il filo spinato. Non si può. Ora ti lascio, devo rientrare. Raggiungo papà. Lui ripara orologi.”.
Bruno guarda ogni tanto gli occhi di suo padre. Sembrano inutili. Né furbi, né maligni. Solo palpebra senza ciglia. Le pupille si intravedono appena. Ma poi pronte a fuoriuscire dal guscio, come lumache in guerra, quando si è tavola, solo per una parola sbagliata contro la Nazione. E scagliare terrore fino a ghiacciare le idee ed i respiri. La mamma non gli dà più i baci e non riesce a guardarlo. Sembra sempre più ammalata, e sa solo piangere.
“Non trovo più papà. L’ho cercato nelle baracche. Sembra sparito”. “Ti aiuterò io a cercarlo. Domani porterò la pala per scavare una fossa per poter entrare. Tu fammi trovare un pigiama a righe, così non ci distingueranno. E faremo gli esploratori, insieme”.
“Bruno, dove sei. Bruno, Bruno, figlio mio, dove sei”.
E Bruno ha pure il berretto a righe, per nascondere il suo ciuffo nero. Lui è con Shmuel. Camminano stretti, e sono in tanti. Tutti in fila, senza sapere dove. Ora si fermano. Raggiungono una sala immensa, scura come una caverna. Un altoparlante grida: “Spogliatevi”. I due amici si siedono, prima di obbedire.
Io continuo ad aver freddo. E non ho voglia di tornare a casa. Nemmeno di restare. Si accendono le luci. Le poltroncine si sono svuotate. Sta per iniziare l’ultimo spettacolo. Bruno ricomincerà a volare.

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