Pardini. Sul sentiero per il bosco sacro

Editi da Mondadori ma ormai irreperibili da anni, i racconti e i romanzi di Pardini vengono ora ripubblicati dall’anconetano peQuod, attento a ripristinare l’originalità linguistica di questo autore amato già da Natalia Ginzburg e Cesare Garboli. Si comincia con Il falco d’oro (pagg. 188, euro 14,00), la raccolta che lo fece conoscere al grande pubblico. I periodi di Pardini sono precisi e duri, seguono il faticoso ritmo del maniscalco che forgia un mondo senza nulla nascondere, né secrezioni organiche né l’aggressività più inumana e sanguinaria. Pagine ruvide e oneste come la roccia, le sue: l’occhio vi s’inerpica, le scala, sosta sui vocaboli che sporgono, vi s’incunea e riparte verso la vetta. Una scrittura materica come poche.
Cominciamo da Il falco d’oro, una delle sue prime raccolte, uscito per Mondadori nel 1983. In questa riedizione lei ha ripristinato i toscanismi allora espunti dall’editor.
«Non erano stati tolti, erano stati fatti degli errori di bozze. Questo libro fu molto amato da Natalia Ginzburg, tanto che ne scrisse il risvolto di copertina e si propose lei stessa per correggermi le bozze. Naturalmente ne fui ben contento, soltanto che all’epoca – ancora non c’era il computer – c’erano tre passaggi di correzioni e Mondadori, per errore, pubblicò altre bozze in loro possesso, corrette da un altro editor, dando luogo a un gran pasticcio di parole travisate e cambiate. Ad esempio nel risvolto di copertina, invece di esserci scritto che ero nato in Val di Serchio avevano messo in Val di Cerchio; invece di “pietraie” avevano scritto “piumaie”; insomma, avevano completamente cambiato la terminologia. Il capocollana allora era Alcide Paolini, che poi infatti si scusò con me. Ora con questa nuova edizione ho reso giustizia al testo ripristinando tutti i vecchi termini».
Ora una domanda più raso terra: ma lei dove estrae i soggetti, così inconsueti, delle sue storie? Leggendo questi racconti mi sono chiesto automaticamente: ma Pardini come passa le sue giornate?
«I soggetti sono in parte inventati e in parte reali: agli scrittori i personaggi vengono incontro da sé. Magari dalle caratteristiche di due o tre persone reali ne esce poi un personaggio unico… la costruzione del personaggio è sempre qualcosa in parte misteriosa, che sfugge all’autore stesso. Lei pensi che la figura di Jodo Cartamigli – da cui è poi stato tratto un film – mi venne in mente un giorno semplicemente perché vidi una ragnatela che volava nell’aria limpida e poi, quasi subito, vidi il nido di una poiana disfatto; quindi si creò qualche cosa nella mia testa che mi portò a inventare questo romanzo su un bounty killer del far west. I personaggi e le situazioni vengono incontro da sé in una maniera che io ritengo misteriosa anche perché l’autore, successivamente, continua a essere condizionato dal personaggio. Ci sono personaggi che uno si porta dentro tutta la vita. Altri invece si dimenticano: ad esempio, rileggendo Il falco d’oro dopo tanti anni che lo avevo scritto ho trovato dei personaggi che non ricordavo più. Li ho rivisti per la prima volta».
Allora devo assolutamente chiederle quanto c’è di vero nella figura di Don Pistola, che mi ha impressionato molto.
«Don Pistola è anch’esso un personaggio sospeso tra la realtà e la leggenda. Certamente l’invenzione ha influito molto, ma una volta esistevano personaggi di quel genere. Nell’Italia contadina si trovavano persone uniche; oggi non esistono più; anche i personaggi della televisione, se si va a ben guardare, son tutti alla stessa maniera. Io ho avuto la fortuna di conoscere il tramonto della società contadina, cioè i superstiti, gli ultimi rappresentanti della piccola borghesia agraria, nel senso che non erano dipendenti di nessuno: avevano il loro territorio, i loro animali, e a loro modo gestivano delle piccole aziende. I paesi dell’Italia contadina erano tante piccole aziende e andavano avanti in questo modo… Ricordo la rapidità di linguaggio con cui comunicavano tra loro i sensali del bestiame, che combinavano la compravendita degli animali. Il linguaggio tra contadino e fattore era molto chiaro, diretto: se ripristinato impegnerebbe molto sulla maniera di esprimersi. E dentro questo linguaggio c’erano i termini del toscano del Due e Trecento, che interessarono molto anche Giovanni Pascoli. Io queste parole le ho sempre immagazzinate e poi mi sono accorto che, scrivendo, erano funzionali al racconto perché rendevano il linguaggio molto più autentico. Ad esempio, si diceva che c’era un “dittaggio” quando s’indicava che un tale era un poco di buono: la parola “dittaggio” voleva dire “L’opinione pubblica dice questo”».
La sua attitudine ad assorbire queste espressioni del territorio si è affinata naturalmente o c’è stata anche una raccolta linguistica consapevole, ricercando i vocaboli, ad esempio, presso i paesi limitrofi?
«Tutte e due insieme. Sentii che avrei cominciato a scrivere quando, a scuola, mi leggevano Pinocchio: alle elementari si andava di pomeriggio, dall’una alle cinque, e l’ultima mezzora la maestra ci leggeva Collodi. Poi, quando imparai a leggere, fu la volta de Il piccolo alpino di Salvator Gotta. Questi due libri m’innestarono dentro qualcosa che sarebbe poi sfociato nella scrittura, non subito, ma con il tempo – infatti molti racconti de Il falco d’oro sono stati scritti che avevo tra i sedici e i diciott’anni – e per questo stavo molto attento alle parole, ascoltavo il parlare della gente, perché delle volte sentivo queste parole desuete e ci coglievo come una musica. Frequentando, ad esempio, Lucca o i bar della Valle del Serchio, avvertivo una grande differenza di parlata: mentre il lucchese era già più piatto e conforme, il linguaggio delle mie parti era più musicale, rispecchiava meglio la realtà. Quando cominciai a scrivere racconti cominciai anche ad appuntarmi queste parole, delle volte anche a farmele ripetere dalla mia nonna, per esempio. Tutto questo mi ha portato a fare una scoperta, mentre scrivevo, e cioè che il racconto non è soltanto una sequenza d’immagini o d’impressioni, ma è anche musica, è anche pittura, è anche prospettiva. In un racconto può entrare qualunque cosa… tutto sta nel come s’impostano le parole, nel sentire che scorrono».
Lei parlava adesso della nonna e in effetti mi ha colpito molto che in questo paese senza nome che fa da sfondo ai racconti s’incontrano quasi più vecchi che giovani, anziani che hanno la sapienza incisa sul viso, che amano raccontare; e che in questo paese non c’è l’abitudinario, il tram-tram di una vita qualsiasi, anzi, la normalità è tramandata e celebrata come un antichissimo rito che tutti stanno svolgendo insieme.
«Sì, perché questo libro ritrae gli ultimi anni di una società che poi si è trasformata e ormai quasi non esiste più. Molti di questi vecchi avevano fatto la guerra del 1915-’18, poi avevano visto quella del ’45, e ne erano rimasti profondamente scandalizzati per la violenza, al punto che alcuni dicevano – indovinando – che questa guerra aveva lasciato nel mondo come un cancro. E tutti questi personaggi, che ho ascoltato poco prima o poco dopo il ’70, raccontavano indirettamente quello che sarebbe avvenuto oggi: la dissacrazione totale della vita. Oggi non c’è più il senso del sacro. Si dissacra tutto, e questa dissacrazione è cominciata, a mio avviso, da quando abbiamo anche dovuto iniziare a tenere le chiese dei paesi e delle colline sprangate perché non vengano derubate. Si vive dentro un mondo che è in conflitto con se stesso. E questi personaggi di cui scrivo avvertivano il cambiamento, proprio come i giovani di oggi esprimono uno smarrimento che è secondo me inesprimibile: non hanno più il senso dell’appartenenza, non hanno più un’identità. Siamo alla ricerca di qualcosa che non riusciamo a trovare. Forse è cominciata l’apocalisse e non ce ne accorgiamo, o non lo vogliamo ammettere».
Nei suoi racconti sono presenti – e il perché mi si chiarisce alla luce di queste sue parole – molti animali selvatici che assolvono a loro volta a una funzione di ammaestramento nei confronti dei giovani: questo è ben evidente ne Il cuculo, Occhi di cane, La ballata della volpe grigia… sono dei veri e propri modelli, e questa loro selvaticità e indomabilità comunica a sua volta una certa sacralità.
«Sì, una certa sacralità e anche la libertà…».
…perfetto, questo volevo chiederglielo nella domanda successiva!
«La sacralità, allora, è questa: che gli animali, anche se erano cacciati, rientravano sempre in una norma di rispetto. Non si faceva come i cinghialai di oggi, che se non ammazzano 100 o 250 cinghiali a stagione non sono contenti. E poi la caccia era una cosa impegnativa, che metteva l’uomo in competizione con l’animale cacciato; oggi invece i cacciatori vanno all’estero, aspettano che l’animale esca dal bosco, poi gli sparano con un fucile ad alta precisione poggiato sul cavalletto… insomma, fanno delle azioni di cecchinaggio. Se pensiamo a come cacciavano nel Medioevo o gli Etruschi – che prendevano gli orsi con le reti – ci accorgiamo che c’era tra l’uomo e l’animale un rapporto d’intesa, pur nella sua ferocia: vinceva il migliore. Anche Ulisse fu ferito alla coscia da un cinghiale e grazie a ciò venne riconosciuto dalla sua nutrice. Tutte queste cose sono andate perdute: l’animale è considerato un oggetto, un prodotto, e invece gli animali ci dicono sempre delle cose molto importanti, forse più di quelle che ci comunichiamo tra di noi, perché l’animale comunica con uno sguardo, un guaito, un comportamento. Se uno ha la pazienza di stare vicino al proprio cane, o al proprio gatto, e di guardarlo negli occhi, di osservarlo con costanza, a un certo punto si accorge che questo animale ha come una trasfigurazione. Ci parla. A mio parere le cose veramente importanti non sono dette con le parole, ma con il pensiero, perché noi siamo fatti di spirito e di anima, quindi d’intuizione e sensazioni. È lo stesso tipo di dialogo che subentra tra gli esseri innamorati: succede che mentre pensiamo alla moglie, alla fidanzata o all’amica, e in quel momento arriva una sua telefonata: ci stavamo pensando insieme. Il pensiero è il grande conduttore, è il telefono senza fili che unisce gli esseri umani e unisce gli esseri a Dio. Noi viviamo in un mondo talmente calato nel materialismo che non abbiamo più il senso del divino, della contemplazione, quel senso che ci hanno tramandato santi come santa Gemma Galgani, san Francesco d’Assisi, santa Teresa d’Avila, santa Faustina Kowalska. Questi santi comunicavano con Dio – avevano la grazia per farlo – e non tutti noi lo possiamo fare, però ci possiamo provare, così come possiamo provare a comunicare con gli animali o con la Terra, che è un grande essere vivente. È un essere immenso. È un organismo che noi profaniamo in continuazione, e infatti il Papa ha lanciato un appello, tempo fa, per la salvezza della Terra. Ma sono tutti moniti che rimangono inascoltati: anche la natura si sta gradualmente ribellando all’uomo, e nonostante il messaggio sia evidente l’uomo lo ignora perché continua a camminare seguendo un solo binario, quello del proprio egoismo e dei propri interessi personali».
Come le dicevo, mi piacerebbe che mi precisasse il discorso sulla libertà perché leggendola ho avuto la percezione intensa di una radicale anarchia, propria sia dei personaggi – la cui singolarità parte dal nome, sempre inconsueto – sia di questi animali selvatici, mai addomesticabili fino in fondo. È un vivere che non deve rendere conto, non nel senso che è irresponsabile, ma che non è intimamente piegato a nessuna istituzione.
«Quella che vede lei è un’apparenza, in realtà la libertà di cui parlo è una libertà interiore, è la libertà dell’individuo nei confronti della natura e dell’animale nei confronti dell’uomo, che però risponde a dei codici e a dei canoni ben precisi, che sono il senso di responsabilità – alcune cose si possono fare e altre no – cioè il rispondere a una “legalità inconscia”. Sottolineare la libertà dell’individuo è importante: affermare che non dobbiamo essere succubi degli idoli. Nella Bibbia Dio fece tanto per far capire che gli idoli dovevano essere distrutti e cominciò così la civiltà di un popolo. Oggi gli idoli continuano ad esserci, che siano il consumismo o la droga o l’alta velocità o tutti quelli che c’inventiamo e costruiamo… essi ci distolgono dalla funzione principale dell’essere umano, che è di vivere e far vivere nel rispetto del nostro prossimo. Io mi rattristo leggendo ogni giorno nei quotidiani le manifestazioni di questa violenza gratuita, questo volersi uccidere, questo sapere che camminare forte con la macchina porta ad ammazzarsi e ad ammazzare… io non riesco più a capire la schizofrenia di questa società che va in palestra, fa la lampada, fa ginnastica eccetera, e poi monta sull’automobile e sfida la morte in continuazione. Queste cose mostrano che stiamo dentro a una società che è ammalata. Per cui questi animali e queste persone, che lei ha incontrato ne Il falco d’oro, erano persone che vivevano secondo princìpi e valori che oggi non ci sono più».
Ripensando a tutto il dialogo che abbiamo avuto finora – gli anni ’70, la fine della civiltà contadina, la perdita del rispetto della vita – ci ritrovo un sottofondo pasoliniano piuttosto forte: non nel senso di una influenza, ma di una consonanza.
«Dalla voce lei mi sembra giovane, e certe cose forse non le ha vissute ma forse ne ha letto – che è la stessa cosa, perché la lettura è l’archivio della memoria. Se lei prende gli scrittori del Novecento e anche quelli precedenti a Pasolini, si accorge che sono scrittori che esprimono una realtà quasi puramente contadina, perché l’Italia era quella. Molti giovani di oggi – compresi anche molti scrittori – sembrano vergognarsi di esserle appartenuti, di essere discendenti di quella società. I nipoti dei contadini si vergognano di aver avuto i nonni contadini. La nostra società si è trasformata, anche in positivo – ad esempio non ci sono più la pellagra, la tubercolosi, la fame eccetera – riguardo alle apparenze tante cose sono migliorate, e anche per i diritti umani qualcosa s’è fatto, però non c’è stata quell’evoluzione che ci si aspettava. La Storia ha cominciato a pigiare un acceleratore che ci fa andare sempre più forte e non si lascia più fermare, fino a rischiare la distruzione di una civiltà».

[versione integrale dell’intervista realizzata per «Letture» 635]

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  1. andrea branco ha detto:

    grazie. grazie mille.

  2. paolo pegoraro ha detto:

    ^___^

    grazie a Pequod i pardiniani avranno di che leggere per i prossimi dieci anni almeno… e non mancheranno gli inediti!

  3. Tita ha detto:

    Dice bene Pardini, penso però che i potenziali protagonisti (o semplici comparse) di storie da raccontare vengono -incontro da sé-, non solo agli scrittori, ma a tutti: è che non sempre c’è un cuore e dei sensi aperti ad accogliere il nuovo che ci viene incontro sul volto della persona che vediamo tutti i giorni, degli oggetti che guardiamo ed usiamo spesso distrattamente, delle circostanze tra le quali passiamo senza più avvertire quasi l’impatto…

    Ne ho conferma quando mi fermo, a sera, a ricordare il giorno trascorso, a raccontarmelo per ricordare-salvare: tante persone, cose, mi vengono incontro ma spesso fatico a vedere i volti, a ricordare bene l’espressione, prima ancora di capire le ragioni di una gioia condivisa oppure di una dolorosa ostilità, i particolari di un ambiente in cui mi sono sentita a casa o di un altro di cui ho avvertito il rifiuto.

    L’attenzione è la virtù per eccellenza e si completa con pazienza e accoglienza, doti essenziali per uno scrittore.

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