Creatività ed arte della parola
La maggiore difficoltà che uno scrittore potrebbe incontrare nella stesura di un romanzo è riuscire a disciplinare un libero pensiero in una forma o in una struttura ragionata e predisposta in modo tale che, tra contenuto ed espressione, ci sia perfetta reversibilità e congruenza. Forse per questo talvolta un autore, dopo avere ceduto fin dal titolo tutta la parola, o meglio la ‘voce’ agli eroi del suo romanzo, può ritenere legittimo far sentire la sua, dall’esterno della finzione narrativa, per evidenziare le sue personali posizioni ideologiche sulla letteratura in genere, o sui contenuti specifici della propria ‘fabula’, in particolare.
Ma è anche vero che un libro, essendo sotto lo sguardo diretto di chi lo legge, dovrebbe già contenere in sé la sua giustificazione: nemmeno l’autore ha il diritto di vincolare la libertà di fruizione e interpretazione del destinatario della propria opera. Qualsiasi prodotto letterario, una volta creato, vive di vita propria, fonte generatrice di una varietà di significati, moltiplicabili all’infinito, in rapporto all’epoca storica, al gusto individuale, alla cultura, alla visione del mondo e delle cose di ogni potenziale lettore. Le considerazioni dell’autore non sono mai essenziali all’economia di un libro, servono innanzitutto a sé stessi, a fissare le proprie intenzioni ed a chiunque ritenga utile conoscerle. Ecco perché un autore, al termine della propria ‘fatica’ letteraria, potrebbe pensare tra sé che non riproduca con fedeltà quanto aveva ideato nella sua mente.
La scrittura non può mai dunque dirsi definitivamente ‘conclusa’, anche quando si sia giunti alla convenzionale parola ‘fine’. Tutto ciò fa sì che il lavoro della penna possa persino assorbire di più di uno manuale nel quale, soprattutto se è sempre uguale e ripetitivo, è concesso estraniare e riposare la mente. La letteratura non è solo idea o materiale speculativo ed astratto, ma è anche il nero sul bianco del foglio, come il colore o il marmo nella realizzazione di un quadro o di una statua. E’ un fermare intuizioni folgoranti entro frasi statiche e limitanti che non sempre hanno l’esatta capienza per accoglierle.
Quando si scrive, da un lato il corpo è costretto a sospendere i suoi movimenti, dall’altro non è concessa tregua alla mente che si svuota e si ricolma di nuovi pensieri, corollari dei precedenti. E questo continuo ‘travasare’ dalla mente alla carta estenua ed al tempo stesso gratifica. Tuttavia, per quanto comporti appli-cazione, disciplina e fatica, difficilmente uno scrittore autentico potrebbe rinunciare alla scrittura. A meno che, certo, come diceva Giacomo Leopardi in un passo delle Operette morali, non si scrivano libri ” […] in minor tempo che non ne bisogna a leggere” e che “ […] siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano”. Bisogna ammettere che di solito le citazioni rischiano sempre di suonare false e pretenziose all’orecchio di chi le ascolta, tanto più che, se staccate dal contesto del pensiero di chi le ha formulate, finiscono sempre per essere manipolate, o quanto meno riferite secondo il proprio modo personale di vedere le cose.
Occorre anche rilevare che la produzione letteraria avventurosa, fantastica o sentimentale, ricca di intrecci e colpi di scena, per sua stessa natura, tende a disperdersi nei puri ‘fatti’ ai quali presta così tante attenzioni da avvincere immediatamente la curiosità e l’emotività del lettore, piuttosto che la sua intelligenza. Purtroppo, però, la struttura mentale di un individuo non superficiale è tale da non trovare appagamento nella sola vacua esteriorità, o si serve di essa come di un punto di partenza che poi supera gradualmente nel faticoso tentativo di cogliere cosa si nasconde dentro o al di là dell’apparenza e di afferrarne il senso ed il fine autentico, se mai uno ne abbia.
E tra tutte le cose che si possono giudicare ‘strane’, è proprio la placida e sonnacchiosa ‘normalità’ quotidiana la più stravagante ed incomprensibile: basterebbe provare a ‘scavare’ appena qualche centimetro più sotto delle ‘sane apparenze’ per rendersene conto. Appare allora chiaro il perché, solo al primo impatto, un romanzo può dare la sensazione che la realtà vi abbia un ruolo preponderante, mentre in un momento successivo, di più profonda immersione nel tessuto fondante di un’opera si svela gradualmente il carattere riflessivo, psicologico – interiore della trama e dei suoi protagonisti.
Anche il contrasto, lo scontro ideale che in apparenza vede partecipi più personaggi, con una loro simbolica autonomia di tratti caratterizzanti, trova il suo polo unificante intorno al vario proiettarsi dell’unità coscienza – pensiero dell’autore su specchi deformati che alterano bizzarramente la verità conferendole molteplici volti, senza che poi nessuno possa dirsi quello reale ed autentico. Inequivocabile è solo l’attività riflessiva di uno scrittore, indipendentemente dai disparati risultati a cui può pervenire. Nelle sue intenzioni, prima nasce la forma, l’idea, e poi la consequenziale materialità dei fatti, ai quali la forma si attaglia come l’argilla malleabile nelle mani dello scultore. L’indirizzo che si può imprimere ad una narrazione accade che sia, più spesso di quanto non si creda, idealistico – soggettivo, e non realistico – oggettivo. I fatti vogliono essere soltanto un ‘pretesto’ narrativo, una ‘cornice’ che delimita l’attività di pensiero di un ‘eroe’ o ‘antieroe’ di un romanzo, ed è quell’attività di pensiero, non i fatti, il vero argomento, il vero soggetto del racconto. In tal senso, le vicende inventate nel corso della scrittura, sono la parte più facile, naturale, quasi ‘istintiva’ da mettere sul foglio. Non costano troppa fatica perché imitano pedissequamente la realtà della vita, spesso casuale, cieca ed accidentale.
Può accadere che l’intreccio di un romanzo contemporaneo dia l’impressione di un farraginoso accumulo di episodi frammentari e slegati, un’apparente zavorra di cose incongrue. Ma non lo è: fin dal principio lo scrittore ha tutto previsto e calcolato. I fatti possono raccontare la vita di tutti i giorni, ma l’attività di giudizio dell’autore, deve tentare di vigilarli e disciplinarli, e soprattutto provare ad ordinarli entro un modello di regole e norme d’ordine escogitati dalla sua mente, ma irrealizzabili sul piano concreto, perché, la Vita, nel suo corso rapido ed incontrollabile, provvede presto a distruggere e sommergere ogni schema ragionato.
La ‘tesi’ di un libro, se mai di una tesi un romanzo possa farsi carico, si potrebbe riassumere nel seguente spunto di pensiero, sia che lo apra sia che lo concluda:
“Non si potrà far sì che io sia nulla finché penserò di essere qualcosa.” diceva già Cartesio. L’essenza della coscienza è il fermento del pensiero, l’ininterrotta attività di riflessione su sé stessa. Il pensiero dello scrittore crea i fatti, il pensiero dello scrittore li ‘uccide’ in un continuo gioco speculare nel quale riflettere sui fatti, o riflettere in astratto, è la stessa cosa, presupponendo a priori l’unità tra fatto e pensiero intorno ad esso.
Da tali presupposti consegue che i confini tra reale ed immaginario in un romanzo possono anche smarrirsi. Pensare di essere qualcosa, tralasciando le implicazioni filosofiche che ne potrebbero scaturire, significa avere la certezza di esistere, sentire che la nostra essenza è tutta e solo nel pensare dentro un corpo, che tutta la nostra ragione d’essere è nel pensiero della nostra coscienza che ci parla e ci fa essere tutt’interi e diversi da un fatto puramente biologico, vegetativo o animale. E’ solo la voce della coscienza che ci trasmette dal nostro interno tanti codici cifrati che noi dobbiamo interpretare, che ci segnalano la sua costante presenza e, fino a quando lo farà, avremo la garanzia di esistere. Il nostro corpo è solo il simulacro ambulante del nostro pensiero che si muove tra luci, suoni e rumori nei quali vorrebbe ubriacarsi senza riuscirci.
La mano che corre veloce su un foglio disseminato di idee che vogliono fermarsi, è solo lo strumento del quale la voce della coscienza si serve per comunicarci i suoi convulsi sussulti.
Un’intuizione, quella della coscienza, vecchia quanto l’uomo sulla terra, eppure tanto più straordinariamente attuale nel nostro tempo che vede così tanta gente cercare cose pratiche e svelte, che abbiano in sé una parvenza di sicurezza. E poiché il pensiero o la coscienza, pesanti come sono, non si prestano ad essere ‘sostenuti’ con tanta facilità, si tende ad annegarli nell’anonimato di un’unica mente meccanica nella quale sia ancora il loro bubbolio atrofizzato ed ammassato. E’ una massa grande, immensa, di persone che fanno l’impressione di possedere una forza straordinaria, mentre invece assomigliano ad un esercito di formiche che si copiano e si nascondono a vicenda, vergognose di provare un impulso che li stacchi dalle mode, gretti, amorfi, terribilmente uguali. Avendo obliato la coscienza nelle mode, nei servili conformismi, nei modelli facili, belli e pronti, confezionati da altri e da ‘consumarsi in giornata’, ciascuno ha perso il coraggio di essere un ‘singolo’ capace di esprimere liberamente la propria individualità, il proprio cuore e la propria intelligenza. Usciti dalla prigionia di sé stessi, si è irrimediabilmente caduti nella trappola del mondo delle cose, delle curiosità, delle chiacchiere e degli interessi banali. Si cerca il nuovo, il diverso, l’originale per colmare le lacune interiori, per stordirsi, obliarsi, per sottrarsi alla propria coscienza che ci restituisce alla nudità di noi stessi, smaschera le nostre i nostri vili compromessi con la vita e ci riporta indietro, verso la nostra primordiale solitudine.
La nostra coscienza è ciò che apparentemente ci conferisce uno statuto di libertà. Ma la libertà è più un’illusione che non una possibilità oggettiva perché, per realizzarsi come tale, dovrebbe sottrarsi al vincolo di un contenuto ma, privata di questo, perderebbe ogni consistenza, andando avanti alla cieca, come parole verbose che risuonano altisonanti nell’eco che ne amplifica la consistenza e ne rivela il vuoto sostanziale. Ma l’individuo non sa che farsene di quest’orribile libertà senza fondo e senza limiti. La libertà ci rende responsabili di quello che facciamo, può condurci all’inferno o al paradiso, ci fa attribuire alle cose un significato che non dovrebbe essere mai definitivo.
Forse sarebbe meglio non imbrigliarsi, non attaccarsi mai troppo sul serio a niente e a nessuno. Ma, a qualcosa, nonostante tutto, rimarremo attaccati per tutta la vita: ancora una volta, la nostra coscienza che si è appropriata della nostra individualità fin dal nascere. E’ lei che, rendendoci consapevoli, ci fa soffrire, desiderare, sperimentare e oggettivare la sua volontà nelle nostre azioni concrete. Da tutto possiamo fuggire fuorché da noi stessi, neppure per un istante, neppure quando dormiamo e viviamo in una condizione di apparente incoscienza, perché è lei che produce i nostri sogni.
Su un piano più propriamente tecnico e strutturale, l’uso di una prosa essenziale e paratattica in un romanzo vuole suggerire la snellezza dei liberi giochi creativi del pensiero, mentre, la simultanea compresenza di un periodo più complesso, ipotattico, articolato in una serie continua di proposizioni in forma di monologhi, è la naturale conseguenza del procedere ininterrotto dello stesso pensiero; le frasi coordinate e telegrafiche, seppure rendono efficacemente un ritmo rapido ed incalzante, mancano di quella compiutezza e di quegli accorgimenti propri di rigorosi ed unitari procedimenti intellettuali. Il discorso omodiegetico, in prima persona, in un romanzo non vuole conferire un’impronta autobiografica, quanto costruire uno stato di ‘immedesimazione’ e di coinvolgimento da parte del lettore nella finzione del racconto e soprattutto nella situazione interiore del protagonista o dell’autore. Il discorso eterodiegetico, in terza persona, tende invece a diluire la pregnanza emotiva dei personaggi dando adito ad indebite ingerenze personali.
Il romanzo può anche alternare momenti comici e tragici per riprodurre efficacemente il binomio tragedia – commedia della vita. Il ritmo può essere volutamente lento e scandito nei più minuti dettagli al fine di far sentire anche sul lettore l’onere del pensiero –coscienza del protagonista o dell’autore che tutto deve affrontare e su nulla sorvolare o sottacere. Com’è la vita reale, dove non è dato che vivere, attimo dopo attimo, anche quando si vorrebbe anticiparne o rallentarne il corso. Il romanzo contemporaneo si distende spesso lungo distinti piani temporali che, procedendo parallelamente, si intersecano gli uni con gli altri. Nel primo piano si intessono le azioni presenti, condotte entro una realtà concreta di cui si tentano di analizzare gli aspetti caratteristici; nel secondo si ricostruiscono confusi ed incerti episodi del passato, fatti affiorare da motivi occasionali e attraverso la memoria.
Gli stessi personaggi anche quando sono reali, resi con tratti fisici molto evidenti, al tempo stesso diventano talvolta l’oggettivo estrinsecarsi dell’ambiguo, capriccioso, mutevole volto del pensiero – coscienza. Ma, disintegrato e ammutolito quel pensiero, perché causa di sofferenza, di prigionia, di pesantezza e di noia esistenziale, il romanzo perviene naturalmente e necessariamente alla sua conclusione. Non si possono omettere i fatti, per lasciare solo spazio alle componenti riflessive, perché altrimenti scaturirebbe non un romanzo, ma un arido saggio filosofico. Ma al tempo stesso, non si può tralasciare il pensiero, in favore della pura ‘brutalità’ dei fatti, perché sono due aspetti complementari ed inscindibili di una sola ed originaria unità tra idea e forma, tra sostanza e materia che stanno a fondamento d’ogni realtà, tanto più umana, se è vero che l’uomo è suprema e perfetta sintesi di anima e di corpo.
Bibliografia
C. SEGRE, Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi.
E. M. FORSTER, Aspetti del romanzo, Garzanti.
G. ALMANSI (a cura di), L`isola del romanzo, Sellerio.
R. QUENEAU, Esercizi di stile, traduzione dì U. Eco, Einaudi.
J. GARDNER, Il mestiere dello scrittore, Marietti.
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