BombaBibbia Report (11/2010)
Il secondo incontro di BombaBibbia si apre con un invito alla ricerca della Sapienza… o meglio, una vera e propria battuta di caccia. Siracide 14,20-27 parla infatti di appostamenti, di piste da fiutare, di squarci da spiare: la Sapienza sfugge come una bestia selvatica, forse perché è qualcosa di affine all’istinto naturale dell’animale braccato. Una cosa è certa: non la si cattura aspettando che ci cada tra le braccia.
Dalla caccia passiamo all’agricoltura: il così detto “piccolo Credo” di Deuteronomio 26,1-11 invita ad accompagnare l’offerta delle primizie con una attestazione legale («Io dichiaro oggi al Signore tuo Dio che sono entrato nel paese che il Signore ha giurato ai nostri padri di darci») e una ricapitolazione della propria storia: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero…». La forza del Signore viene descritta con espressionismo pittorico – «con mano potente e braccio teso» – un gesto imperioso, michelangiolesco, ma anche cubista: non descrive un’azione precisa, ma suggerisce accostando due forme in tensione (mano/braccio).
Il Primo Libro dei Re (1Re 17,1-16) mette in scena un personaggio schietto quanto burbero: il profeta Elia che, affamato e assetato, chiede senza tanti giri di parole di essere servito da una donna probabilmente ancora più affamata e assetata di lui. La scena si consuma in poche battute: il profeta chiede prima l’acqua, di cui ha bisogno immediato; poi si ricorda di avere fame e pretende pure il pane. La donna, serafica, fa presente la morte imminente per lei e il figlio. La psicologia viene completamente abolita in favore della brusca logica della fede: il miracolo successivo servirà da modello alle moltiplicazioni dei pani nel Nuovo Testamento.
Come il passo del Deuteronomio, anche Numeri 15,37-41 invita a fare memoria attraverso un segno. In questo caso non si tratta però dell’offerta delle primizie, ma dei «fiocchi azzurri» ai bordi delle vesti, ovvero gli tzitzit. Il segno distintivo agisce con una bussola per la memoria, impedendo di smarrirsi («non andrete vagando dietro il vostro cuore e i vostri occhi», v.39) dietro le autoillusioni spiritualiste («il vostro cuore») come pure dietro un eccesso di empirismo razionalista («i vostri occhi»). Secondo l’autore solo la memoria di un passato concreto, fatto di eventi specifici e tramandabili, è un criterio di giudizio affidabile.
Un altro modo per ricordare il passato è fare festa. Neemia 8,1-12 racconta il ritrovamento dei libri della legge dopo l’esilio babilonese in un racconto che è in chiara antitesi con l’episodio del vitello d’oro (Es 32,20). In Esodo il popolo è intento a un banchetto idolatra e Mosè lo costringe con la forza a nutrirsi della Parola (le Tavole della Legge vengono polverizzate e fatte “bere” a tutti). Viceversa in Neemia il popolo ascolta la Legge e piange per la commozione: allora i sacerdoti vietano le lacrime e ordinano di nutrirsi di carne e fare festa. Anche nel Nuovo Testamento abbiamo una “costrizione alla festa”: quella che conclude la parabola del figlio perduto («era necessario fare festa e rallegrarsi», Lc 15,32): tuttavia in quel brano ciò che viene ritrovato non è la Legge divina, ma l’uomo smarrito che l’ha trasgredita.
C’è dunque «un tempo per piangere e un tempo per ridere», come ci ricorda Qohelet 3,1-15 nella sua lunga lista di azioni antitetiche. Non sembrano esserci azioni vietate per principio: c’è un tempo anche per uccidere, anche per fare la guerra. Come c’è un tempo per guarire e fare la pace. La Bibbia sembra proclamare un relativismo totale… ogni azione pare annullarsi nel proprio contrario. Qual è, allora, il significato di ogni azione? Il senso pare stare tutto nel «tempo»: ogni cosa va fatta in un preciso hic et nunc sincronizzata con il piano divino e il senso sta tutto in questa sincronia, in questo discernimento. Compreso questo, non resta nulla di meglio che godere di ogni cosa, pur nella consapevolezza che anche la capacità di godere durevolmente delle cose risiede nello stesso Dio («ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio», v.13) che ha posto nel cuore dell’uomo l’inquietudine dell’eternità («egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine», v. 11).
A proposito di interiorità. Nel Vangelo di Luca 7,36-39.44-48 assistiamo alla famosa scena della donna che lava i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli, e l’autore… usa una notazione di psicologia! Infatti il fariseo «pensò fra sé (v.39): Se costui fosse un profeta…». Il narratore onniscente usa il discorso diretto libero per rappresentare il pensiero di un personaggio, cosa piuttosto inconsueta nella narrativa ebraica, ma non del tutto: viene rappresentato l’uomo chiuso in sé stesso, che non dialoga con gli altri ma con il proprio io («disse tra sé» traducono altre versioni). E’ un’introversione diabolica, che si fonda su un (pre)giudizio astratto prescindendo dall’incontro reale. Gesù, non a caso, controbatte al pensiero astratto del fariseo opponendogli la lista delle azioni concrete attuate invece dalla donna: «Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi» (vv.44-46).
Concludiamo infine con l’episodio delle querce di Mamre (Genesi 18,1-15), dove appare lo stesso artificio retorico: i personaggi, nel momento in cui precludono dal dialogo con l’altro rifugiandosi nel pensiero interiore e nascosto all’interlocutore, prendono un abbaglio e vengono richiamati. Infatti sia Abramo («e rise e pensò», 17,17) che Sara («rise dentro di sé», 18,12) sul primo momento non credono alle promesse divine, anzi, le irridono come impossibili perché a essi incomprensibili. Ciò nonostante le azioni di Abramo manifestano una profonda attesa nei confronti della visita di Dio: tutte le sue azioni manifestano prontezza e accoglienza («corse loro incontro […] andò in fretta […] “Presto!” […] corse lui stesso […] si affrettò a prepararlo») nei confronti dei misteriosi visitatori, che ora sono Uno, ora sono Tre («Il Signore apparve […] tre uomini stavano in piedi […] Il Signore disse […] Quegli uomini si alzarono […] Il Signore diceva […] Quegli uomini partirono»). Uno brano impenetrabile, che ha segnato a fondo il nostro immaginario.
Nel leggere il report, mi ha colpito il taglio con cui è stato affrontato il tema del tempo: che le azioni bibliche siano collocate in hic et nunc, in un presente che tuttavia non è casuale ma opportuno e integrato con la scansione divina e umana dei tempi e delle attività. Mi sono tornate alla mente letture fra loro molto differenti: Mimnermo e Orazio che riflettono sulla precarietà del tempo, volubile come il volo di una mosca, e quella dell’undicesimo libro delle “Confessioni” di S. Agostino, incentrato sul problema della misurazione del tempo. E pur nella lontananza culturale tra i testi, è il presente come spazio temporale a dominare la riflessione. Un presente che in Mimnermo e Orazio è orizzontale e antropocentrico e in S. Agostino verticale e aperto al confronto con Dio; perché se il passato dimora nella memoria e nell’anima, se il futuro dissipa le energie spirituali, solo nel presente l’uomo può pacificarsi con Dio, immergersi in Lui. Oggi vedo sempre maggiore distanza da entrambi i modelli: l’invito a godere il presente negli antichi scaturiva comunque da una cognizione del dolore a cui si cercava di dare risposta; nella contemporaneità esso mi pare vuoto di cognizione e mi chiedo se questa spinta verso il presente, da conforto all’inquietudine che dimora nell’uomo, non sia diventata fonte di dissipazione di un progetto di vita più complesso.