Una curiosità dell’anima
Che stai aspettando? Cosa ti aspetti dalla vita? Chi aspetti? Sono domande che ci hanno fatto o che ci siamo fatti almeno una volta nella vita. Passiamo moltissimo del nostro tempo ad aspettare qualcosa o qualcuno: l’autobus alla fermata, un amico che è in ritardo, il nostro turno allo sportello postale. Stiamo aspettando anche adesso che siamo relegati nelle nostre case, solo che è cambiato il nostro modo di aspettare.
Nel film Il mistero di Bellavista diretto da Luciano De Crescenzo l’attesa si configura come opportunità, occasione. Bellavista (Luciano De Crescenzo) e il marchese Filiberto Bonajuto di Pontecagnano (Riccardo Pazzaglia) si trovano a casa del marchese per prendere un caffè. Mentre aspettano che il caffè sia pronto i due hanno la possibilità di parlare:
MARCHESE — Professo’ i giovani di oggi sottovalutano l’attesa, la ritengono una perdita di tempo… e invece l’attesa è preziosa perché ci consente di parlare e quindi di conoscerci.
BELLAVISTA — Quindi secondo voi noi dovremmo essere grati alla caffettiera napoletana che ci mette più tempo per far scorrere il caffè.
MARCHESE — Ma certamente
Al momento risulta difficile trovare un punto di contatto tra la scena del film e la realtà che stiamo vivendo: non è possibile prendere un caffè in compagnia di un amico, la comunicazione avviene necessariamente a distanza; i luoghi dell’attesa per molti si sono ridotti ad uno: la casa; è cambiato il tempo dell’attesa: non è più una questione di minuti, ore ma di giorni, mesi. L’attesa assume una nuova dimensione. Non possiamo incontrare e conoscere l’altro, ma forse possiamo imparare a conoscere e riconoscere noi stessi.
Nel 1981 Giorgio Gaber pubblica il l’album Anni Affollati. Una delle tracce s’intitola L’attesa:
No non muovetevi
c’è un’aria stranamente tesa
e un gran bisogno di silenzio
siamo come in attesa.No non parlatemi
bisognerebbe ritrovare
le giuste solitudini
stare in silenzio ad ascoltare.L’attesa è una suspance elementare
è un antico idioma che non sai decifrare
un’irrequietezza misteriosa e anonima
è una curiosità dell’anima (…).
In questa canzone l’attesa diviene un momento interiore. Colpisce la fissità che circonda l’individuo: il silenzio, che diventa un bisogno, una necessità; l’aria è tesa ma questa tensione è “strana”; il tempo diventa “immune”. Spazio e tempo vengono annullati, l’unico parametro, l’unico riferimento certo resta l’Io. Il resto non conta anzi è elemento di disturbo (No non parlatemi).
Gaber canta che bisogna stare in silenzio ad ascoltare ma, se tutto tace intorno a noi, non possiamo far altro che ascoltare quel brusio che ancora non ci appartiene del tutto ma che fa parte di noi. L’attesa è ricerca, tensione, scoperta. È un viaggio nella nostra anima che è “curiosa” di scoprire ciò che veramente stiamo aspettando, ciò di cui abbiamo bisogno. L’attesa è un antico idioma da decifrare e per comprenderlo dobbiamo tornare alle origini, dobbiamo tornare a noi stessi. Questa quarantena ci ha allontanato dalla “vita normale” e ci sta togliendo moltissimo: i concerti, le cene con gli amici, il piacere di fare una passeggiata; ha sconvolto i nostri piani costringendoci a modificarli. Ma al posto di tutto quello che ci ha tolto c’è davvero rimasto il vuoto?
Nel 1962 Lucio Fontana realizza Concetto spaziale, Attese. Quest’opera fa parte del ciclo dei Tagli.
Tagliando la tela Fontana crea un nuovo spazio che va oltre la bidimensionalità, che tende all’infinito. Il taglio rappresenta l’indagine che lo spettatore è costretto a fare. Un’indagine nella propria interiorità. La monocromia trasmette calma e serenità. Il titolo allude alla pluralità dei tagli che rappresentano le dimensioni dell’attesa, i sogni e le speranze di chi li guarda. Lo spazio vuoto creato dal taglio va colmato dallo spettatore.
Così come il taglio nella tela assume un significato diverso a seconda di chi lo guarda, allo stesso modo l’attesa cambia per ognuno di noi che attende. L’attesa assume le caratteristiche del nostro stato d’animo, si riempe delle nostre speranze, aspettative, delusioni. Fontana non ci trasmette le sue emozioni, ma ci costringe a scoprire le nostre, ci chiede di metterci in discussione, in un certo senso ci mette alla prova. Forse anche questa attesa ci sta mettendo alla prova. Rimane da chiedersi allora: noi che valore vogliamo dargli?
Michelangelo Buonarroti descrive l’attesa come “il futuro che si presenta a mani vuote”. Ma se queste mani sono vuote non siamo forse noi a poterle riempire? Non possiamo, nell’attesa, provare a costruire qualcosa affinché il futuro rappresenti un nuovo inizio?
Prima di inserire un commento, assicurati di aver letto la nostra policy sui commenti.