Julien Gracq

La recente scomparsa di Julien Gracq, scrittore francese che ha attraversato tutto il Novecento (essendo nato nel 1910) e che l’ha punteggiato con i suoi 19 libri, pubblicati senza grandi tirature per lettori colti, induce a riconsiderare l’opera di questo narratore, poeta, saggista e memorialista, discreto e riservato, ritiratosi da molti anni a vivere nel suo villaggio natale, estraneo per scelta al mondo letterario della capitale, anche se le sue opere compaiono nel catalogo di Gallimard. Tentato in gioventù dall’impegno politico in area comunista, passato poi attraverso il coinvolgimento della guerra e l’esperienza della prigionia, si è in seguito dedicato in maniera esclusiva (oltre al lavoro di insegnante in un liceo di Parigi) alla produzione letteraria, nella convinzione che il linguaggio è lo strumento che permette di comunicare con il mondo e di conoscerlo misticamente. La sua stagione narrativa prende le mosse dal surrealismo, dominante al momento del suo esordio con Al castello d’Argol (1938), per accentuare nel dopoguerra la sua grande originalità, poetica, simbolica e metafisica in una narrazione che sempre più si arricchisce di intensi riferimenti culturali estranei alle ideologie dominanti.
Dal secondo romanzo, Un bel tenebroso (1945) a La riva delle Sirti (1950) a Una finestra nel bosco (1958), fino ai testi raccolti ne La penisola (1970), la narrativa di Gracq racconta sempre, in una prosa affascinante ed elaborata, impreziosita da grande ricchezza metaforica, un’unica storia, in cui si combinano la solitudine, la morte e l’attesa, senza consolazioni di tipo religioso, ma con l’ansia di chi vive sulla soglia di una zona inesplorata, di un territorio segreto, con la consapevolezza del peso schiacciante del destino. Lo stesso Gracq ammise serenamente di non avere uno spirito religioso, anche se rimase sempre, per incomprensibile incongruenza, estremamente sensibile a tutte le forme che il sacro può assumere. Questa fedeltà a simboli e riti sacri, sovente presenti nei suoi testi, anche se stravolti, potrebbe interpretarsi come insoddisfazione del reale e del contingente, che lo ha portato a privilegiare segni pur sempre di meraviglia e di speranza. Questi atteggiamenti possono essere individuati anche come quelli con cui lo scrittore ha continuato a guardare il mondo da un angolo di visuale che si inabissa nel profondo del suo io: egli è sempre vissuto in una fine bolla di trasparenza, che nascondendo la dimora ideale del suo io, gli ha permesso di guardare al di là il mondo, grazie a quell’universo di parole, che diventa la rivelazione della meraviglia non sostenibile che è rappresentata ai suoi occhi dal mondo che ricrea, narrandolo. Un mondo che Gracq costruisce e domina soprattutto nel suo romanzo più noto La riva delle Sirti, in cui traspone in uno scenario inventato l’azione che conduce allo scatenarsi di una guerra, quale lo scrittore stesso aveva potuto osservare tra il 1936 e il ’39: qui la finzione nella sua autonomia sprigiona uno spirito della Storia, che, pur tenendo l’attualità a distanza, ne fornisce una chiave interpretativa. È un romanzo dell’intimo, in cui campeggia un personaggio solo, in un luogo deserto e quasi abbandonato, un posto sconosciuto e misterioso, che affascina e attrae, assumendo per questo caratteri di sacralità. Tutta la narrazione è incentrata sull’attesa di un evento, raccontato a posteriori, il che dà all’autore l’occasione di individuare tutte le possibilità del destino. Questo romanzo è in realtà una “non-storia”, dato che la vicenda si mette in moto proprio quando la narrazione termina. È il racconto di una situazione di immobilità di fronte all’incognita del destino. Di qui nascono brucianti interrogativi: credere di fronte al nulla? fare qualcosa o non fare niente? non intervenire, non tentare di dare un senso più autentico e profondo al proprio esistere? Al termine ci rimane l’idea che l’autore voglia farci intendere che l’attesa senza fine è, come ogni esperienza, una forma d’esistenza possibile e degna di essere presa in considerazione, anche come filo conduttore di un romanzo. Per questo le vicende raccontate ne La riva delle Sirti hanno un carattere di universalità, perché quello che l’autore vuole sottolineare è che nell’avvenimento, ad essere meravigliosa è l’attesa: Au- delà de ce qui arrive ou n’arrive pas, l’attente est magnifique. E proprio questo, cioè il sentimento della meraviglia, come ha evidenziato J.-M. Maulpoix, è la caratteristica che contraddistingue questo narratore e poeta, che in Italia si conosce troppo poco, il quale ha saputo farsi interprete, grazie ad una ricca creatività, de la merveille unique que c’est d’avoir vécu dans ce monde et dans nul autre.

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  1. piero sanavio ha detto:

    sarebbe stato di ricprdare anche l’autobiografia scritta come un ritratto di nantes +portrait d’une ville+ tradotto in italiano da annuska palme e pubblicato da quasar manni, collezione +codici+ diretta dall’autore di queste righe. piero sanavio

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