Lasciarsi l’orizzonte alle spalle

Non si può tornare indietro
Le strade sono piene di detriti
Macerie di un passato che un giorno
Era stato un futuro entusiasmante

Questa è la strofa di una canzone di Jovanotti del 2015, una canzone che non a caso porta il titolo L’alba. Il pezzo celebra l’esaltazione che proviamo di fronte a ogni nuovo inizio, espressione del nostro amore della vita, come una sensazione umana positiva che spinge all’azione e regala soddisfazione e pienezza. Tutto questo è l’alba: come ogni mattina nasce un nuovo sole, così la nostra stella si trova a delineare un nuovo orizzonte che sostituisce il vecchio, scomparso la sera prima al tramonto.

Si gioisce della nascita di una nuova speranza, di una nuova prospettiva di vita e un nuovo futuro da raggiungere, dunque, ma si riflette anche sulla scomparsa del sogno o della destinazione precedente, quello che forse si è compiuto o forse no ma non importa perché in ogni caso adesso ce lo siamo lasciato alle spalle.

L’alba è già qua
Per quanto sia normale vederla ritornare
Mi illumina di novità
Mi dà una possibilità

Il fatto che sia normale veder tornare l’alba è qui dato per assodato, viene liquidato al secondo verso del ritornello, ma non è un dettaglio che viene trascurato.

Non che Jovanotti ci stia dicendo qualcosa di nuovo: è in fondo il concetto romantico di Streben, la tensione infinita dell’animo umano, l’eterna speranza. O se, vogliamo vederla in maniera pessimistica, l’eterna insoddisfazione che ci è toccata in sorte dal momento che un sogno realizzato ci impedisce di sentirci appagati nel presente ed evitare di pensare al successivo obiettivo. Questa era la Volontà che danna la nostra esistenza secondo Schopenhauer, questo il dramma della breve e infelice vita umana secondo Leopardi. Non a caso ne L’alba è contenuta una citazione dell’Infinito, il celebre finale “naufragar m’è dolce in questo mare”.

E che succede se facciamo ancora un passo indietro fino al Medioevo, anzi, fino al Medioevo immaginato da un uomo secentesco? Un nobile scozzese si ritrova ad essere protagonista di una vicenda che sembra – se ne sarà forse accorto anche lui stesso ad un certo punto – simile a quella di certi miti greci: delle persone in grado di vedere il futuro, nello specifico tre streghe, gli predicono che acquisterà il titolo di signore di Cawdor e poi quello di re.

Ovviamente lo scozzese in questione è Macbeth, dell’omonimo dramma di Shakespeare. L’uomo rimane stupito delle parole delle tre fino a che non gli viene annunciato che effettivamente il titolo di signore di Cawdor è già suo

ANGUS: Colui che era signore di Cawdor è ancora vivo: ma sotto il peso di un ben grave giudizio egli conserva quella vita che merita di perdere. Se egli fosse d’accordo con quelli di Norvegia o abbia dato mano al ribelle con nascosti aiuti e agevolezze ovvero abbia lavorato con gli uni e con l’altro alla rovina della sua patria lo ignoro: ma un alto tradimento provato e confessatolo ha perduto.

MACBETH: (a parte): Glamis e signore di Cawdor: il meglio è da venire. Grazie della vostra premura. Non avete dunque speranza che un giorno i vostri figli siano re una volta che coloro che hanno dato a me il titolo di signore di Cawdor non hanno promesso di meno ad essi?

BANQUO: Quella profezia creduta alla lettera potrebbe anche accendervi fino al conseguimento della corona oltre il titolo di signore di Cawdor. Ma è strano: e spesse volte per portarci alla nostra perdizione i ministri delle tenebre ci dicono il vero; ci seducono con delle inezie oneste per tradirci in cose del più grave momento.

Già a questo punto lo spettatore o la spettatrice può immaginare quale sarà la storia di Macbeth che, galvanizzato dall’avverarsi della prima profezia fattagli dalle streghe, si convincerà che il suo destino è quello di regnare e ucciderà re Duncan. Immaginiamo anche, dalle parole dell’amico Banquo, che questo percorso non porterà Macbeth alla gloria, ma alla perdizione, e infatti il nobile scozzese passerà il resto della sua vita nella paura di essere scoperto e di perdere il potere, ucciderà Banquo e molti altri per questo e si attirerà l’odio di tutti. La sua testa, nell’ultima scena, rotolerà incosciente sul palco. Ci sembra così che il finale della tragedia ci sia stato rivelato dall’inizio, che niente possa sorprenderci. L’orizzonte degli spettatori delle e spettatrici è chiaro, il fato già compiuto e il futuro è archiviabile. E questo non perché, come nella tragedia greca, il destino sia qualcosa di immutabile e inevitabile, ma perché Macbeth, accecato dalla brama di potere, ha già allargato i propri desideri di conquista e innescato un processo ineluttabile che lo porterà alla fine.

Ma se immaginare il futuro e tentare di raggiungerlo porta a rovinarsi il presente, a vivere o morire nell’ansia e nell’irrequietezza, perché non smettere di fare progetti? Perché non lasciarsi alle spalle non una singola prospettiva, ma il concetto stesso di orizzonte? Esattamente questo immagina Nietzsche, utilizzando la stessa identica immagine dell’orizzonte, ne La gaia scienza del 1882:

Chi ci diede la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando staccammo la terra dalla catena del suo Sole? In quale direzione ora ci muoviamo? Non precipitiamo noi continuamente? Indietro, da un lato, davanti, da tutte le parti? C’è ancora un altro e un basso? Non voliamo come attraverso un nulla senza fine? Non soffia su di noi lo spazio vuoto?

Questa cancellazione dell’orizzonte è per Nietzsche una soluzione, una visione in grado di risolvere i problemi relativi all’angoscia del futuro che tormentano gli umani dalla notte dei tempi. Basterebbe dunque non pensare in prospettiva, cogliere l’attimo convincendosi che il tempo inizi e finisca nel presente innescando l’eterno ritorno dell’uguale. Tutto risolto. Eppure…

Eppure occorrerebbero superuomini (o superdonne, non so) per cancellare davvero l’orizzonte. Per noi che siamo umani, fin troppo umani, l’orizzonte esiste anche se ci sforziamo di non guardarlo, la nostra finitezza ci fa vedere limiti, ci impedisce di pensarci padroni del mondo, ci mette continuamente a confronto con gli altri e con lo scorrere del tempo, tanto è vero che più di un secolo dopo l’uscita de La gaia scienza noi ascoltiamo ancora Jovanotti parlare del sorgere del sole.

La conclusione è che non possiamo essere felici, che saremmo sempre torturati dalle aspettative e dai timori del futuro?

La verità è che è molto facile per noi lasciarci trasportare dall’energia di Jovanotti, che pur tenendo conto del nostro Streben non è un pessimista e ci dimostra che questa faccenda della speranza infinita e del continuo superamento dell’orizzonte non è per forza una condanna. Se ci si allontana dal razionalismo stringente di Leopardi si può vivere anche la contraddizione di “un futuro entusiasmante” ridotto a macerie e rovine senza perdere la fiducia in un nuovo inizio. In fin dei conti, basta essere coscienti che questo è “normale” ed è giusto che sia così, che questa è la condizione dell’essere umano e che è l’unica dove possiamo riconoscerci davvero in noi stessi.

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