Tra arte e amicizia impariamo l’arte dell’amicizia vivendo l’amicizia per l’arte
Uno dei capisaldi di Bombacarta è il legame arte/vita. Ok. Allora ci si può chiedere: cosa conta *veramente* nella vita? E in questo l’arte che c’entra? Mi sono confrontato anche con scrittori come Lewis, ad esempio (quello del film “Viaggio in Inghilterra”), autore di libri molto noti. Per lui, rispetto a ciò che conta *veramente* anche la cultura e l’arte è spazzatura (stringi stringi). E’ l’unica risposta possibile? No, ovviamente. Ce n’è un’altra, ad esempio. L’arte “conosce” cioè che è veramente importante nella vita. Ma se accettiamo questa definizione, ci sono delle conseguenze chiare. Se consideriamo l’arte come un modo di conoscere la realtà, il mondo, se stessi, Dio (per i credenti)… allora l’atto creativo dell’artista è un’ascesi dell’umiltà non un prometeismo dell’auto-espressione! Cioè – se io, creando, voglio esprimere me stesso, allora l’arte mi chiude stretto stretto in me stesso. Non mi fa conoscere nulla, tranne il mio voler essere me stesso a tutti i costi. E’ una sorta di “inferno” di solitudine e di egotismo che mi fa “morire” in me stesso. – se invece io, creando, mi tengo in ascolto di qualcosa che anch’io non conosco e conoscerò creando, allora sarò assolutamente ricettivo, in ascolto, umile. Sarò in attesa e in accoglienza proprio mentre sarò al culmine della mia attività. La realtà spesso sta nel mezzo, ma credo sia importante distinguere queste due radici: l’arte “sim-bolica” (cioè, etimologicamente, che “unisce”) e l’arte “dia-bolica” (cioè, etimologicamente, che “divide”). Se l’arte è conoscenza significa che bisogna stare in ascolto. Non ipertrofizzare la propria personalità, ma semmai, al contrario, provare a prestare ascolto, a non far troppo chiasso. Come gli antichi pittori russi delle icone. Loro, prima di dipingere facevano digiuni e penitenze. Perché? Perché sentivano il bisogno di mortificare se stessi per poter dare un volto alla Bellezza il meno opaco possibile. L’artista deve avere occhi, orecchie, mani aperte in una tensione che non è iper-tensione ma at-tesa, tensione “ad”, cioè “verso” ciò che sta fuori di lui. L’arte dunque non può esaurirsi nella sola espressione. Se l’arte è apertura, accoglienza, ricettività, allora l’arte è innanzitutto un DONO non un possesso. Non la si può “produrre” (sarebbe solo “tecnica”). Cito un poeta inglese dell’Ottocento, per me straordinario, che è Gerard Manley Hopkins. Scrive in una sua poesia: “there lives the dearest freshness deep down things” (dove “there” è riferito a “nature” che sta nel verso precedente) e cioè: “vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. Questo è il dono dell’arte: cogliere nelle cose, nel reale, nell’uomo, la freschezza che sta nel loro fondo, che è loro intima. E questo è solo un dono. Solo attraverso un dono è possibile cogliere questa sorgività dell’essere. Qualcuno potrebbe dire che la mia è una visione irenica, allegra e pacifica. Anche il dolore, il male ha una sua sorgività, una radice. Allora un pittore terribile come, ad esempio, Bacon (non so se mai avete visto le sue tele), coglie la terribile sorgività del male e la esprime. Alla fine però ti rendi conto che il male è sorgivo per mancanza. Il male è una sorgente a secco e dunque una mancanza di freshness, di “freschezza”, sempre per usare il termine di Hopkins. L’arte è cogliere la freschezza che sta al fondo delle cose, chi la coglie allora ha l’intuizione dell’eternità. E’ una esperienza straordinaria e certamente spiritualmente molto forte. Tra i tanti ce lo insegna, ad esempio, Arthur Rimbaud proprio nella sua “Stagione all’Inferno”, quando scrive: E’ ritrovata! Che? l’eternità. E’ il mare sciolto Nel sole. Anima mia eterna, Osserva il tuo volto benché La notte sia sola E il giorno sia in fiamme E ancora un brano di Pierre Teilhard de Chardin: “Simile a quelle materie traslucide che un raggio racchiusovi dentro può illuminare in blocco, il Mondo appare, per il mistico, come impregnato d’una luce interna che ne intensifica il rilievo, la struttura e le parti profonde” Se ci mettiamo in questa ottica ecco un’altra conseguenza: non esiste più – un “materiale” che sta in basso, volgare, effimero,… – e uno “spirituale” che sta in alto, sublime, eterno… L’arte, se è spiritualmente recettiva e coglie la freschezza e l’eternità (cfr. Hopkins e Rimbaud), opera con la materia (colori, le frequenze dei suoni,…) forgiandola in modo che se ne sprigioni tutta la sua potenza spirituale, tutta la potenza spirituale della Materia, che va captata gelosamente e messa in “opera” appunto nell’opera d’arte.
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