La semplice complessità di Claudio Damiani

Claudio Damiani è un poeta che stimo molto. Quando ho letto le sue due principali raccolte, Eroi e La miniera (Fazi), non ho potuto nascondermi il mio stesso stupore: dunque si può fare poesia anche così? Indubitabilmente era poesia, anche se scritta con le parole più semplici di questo mondo; niente di artefattamente prosastico, nessun artificioso prosciugamento del testo; ma un parlare blando e mansueto, e non per questo meno vero. La poesia non ha per lui alcuna aura sacrale, piuttosto è uno strumento della vita quotidiana, un atteggiamento, una compostezza che caratterizza ogni gesto. Anche nella sua ultima raccolta (Attorno al fuoco, Avagliano, 2006, pagg. 100, euro 10,00) ho trovato le parole-chiave a lui care: ordine, naturalezza, pulizia, stare fermi, stare zitti. Parole che s’impongono delicatamente, come uno stupefatto silenzio di bambini.
Caro Claudio, a sei anni da Eroi affronti alcune tematiche nuove…
«Attorno al fuoco l’ho scritto tra il 2000 e il 2004, e racconta della famiglia come cellula che contiene in sé un fuoco polemico, che si rompe e si ricompone in un altro modo. E poi c’è il terremoto quotidiano di una guerra senza fronti, che diventa una grande metafora dell’esistenza e che non vedo solo come qualcosa di negativo. Il fuoco originario che attende dentro la pietra è distruzione, ma è anche qualcosa da cui non ci possiamo allontanare, anzi, allontanandosene si rischia la fine della società. Oggi, in questa sorta di dis-società sempre più virtuale, abbiamo la visione di nuove forme di associazione ma la famiglia è sempre l’arché, il bivacco attorno a cui ritrovarsi».
In questa raccolta mi sembra esserci un’attenzione verso l’attualità per te inedita.
«Nei libri precedenti ho sempre messo da parte il presente a causa di un eccesso di rumore che lo rende impossibile da affrontare. Per questo ho sempre cercato il silenzio e la natura; anzi, piuttosto che cercarla, l’ho incontrata in alcuni luoghi ben precisi come la campagna arcaica attorno a Roma, il villaggio minerario nel nord della Puglia dove sono nato, l’isola d’Elba».
I tuoi versi si presentano nudi, disarmati, come se la ricerca di una percezione rinnovata annullasse ogni necessità di artifici retorici.
«Per me è naturale, non è che mi sforzo di avere una percezione il più originaria possibile. Poesia, letteratura, arte fanno parte della natura, della vita, della quotidianità. Io, per esempio, difficilmente scrivo seduto a un tavolo, preferisco scrivere sdraiato perché è uno stare sulla terra, uno starle vicino. Mi sono sempre sentito lontano dalla visione moderna, in senso cartesiano, che vede negli animali delle macchine e la vita come un meccanismo; dal Seicento in avanti gli scienziati hanno sequestrato la natura all’arte, ne hanno fatto una loro esclusiva, e allora la poesia ha cominciato a parlare delle cose più strane. Io invece mi sento vicino alla visione del cosmo come qualcosa di animato. Gli antichi avevano ragione a parlare di ninfe che presiedono a laghi e monti: parlavano delle anime di questi luoghi perché avevano capito che anche i luoghi sono esseri viventi con una vita, un tempo, un modo di essere, un modo di comportarsi. Anche quello che l’uomo fa, lo fa seguendo la venature del paesaggio e del tempo. L’uomo non costruisce sul niente, ma deve relazionarsi con l’esistente che già c’è, per cui posso dire con un paradosso che anche ciò che è artificiale è vivo. È molto importante vedere anche le cose come esseri con una loro individualità, in modo che noi impariamo ad avere un comportamento corretto con loro».
In Attorno al fuoco c’è perfino una composizione dettata da tua figlia, che ha 8 anni. La tua poesia non si sottrae alla sfida di apparire ingenua, ma di un’ingenuità consapevole, opposta a ogni scetticismo preventivo.
«È un tema vastissimo. Secondo Schiller gli ingenui erano gli antichi, mentre i moderni sono sentimentali perché disillusi, incapaci di raggiungere l’Eden degli avi. Ma questa è una sciocchezza, perché per gli antichi l’arte non nasceva spontaneamente, anzi, gli antichi erano ancora più furbi dei moderni più moderni. Dire che Omero è un ingenuo, è un’ingenuità enorme, perché anche dietro Omero c’era una tradizione consolidata di letterature scritte e orali: Omero è grande proprio perché ci sembra così naturale. Già Aristotele e Orazio dicevano che l’arte deve apparire come qualcosa di facile pur essendo molto complessa. Così nella tradizione cinese, che è molto vicina a quella latina, l’Essere stesso è semplicità e complessità. Petrarca dice che l’arte è una “difficile facilità” e usa una lingua media fatta di pochi vocaboli, al contrario di Dante. Sul tema dell’ingenuo, Leopardi viene rovesciato da Pascoli, che fregandosene del suo materialismo illuministico scrive Il fanciullino, uno dei più importanti trattati di poetica mai scritti. Pascoli è l’unico a capire la potenzialità che ha la natura di calmarci e accarezzarci e anche avvicinarci a Dio, come dice anche Saba».
Però la natura non è solo mitezza…
«Un tale incanto è la dimostrazione vivente dello spirito. La natura, io credo, è qualcosa di altamente mentale, è essenzialmente pensiero e spirito. Ci sono dei luoghi che mi sembrano umani proprio perché tutto il cosmo ha una bellezza che parla da sé. La natura non è materia, lo ripeto, è un pneuma celeste, un movimento continuo, qualcosa di continuamente generativo. E oggi se ne sta accorgendo anche la scienza».
Il tuo volume apre la nuova collana Avagliano Poesia, che dirigi con Andrea Di Consoli.
«A partire dagli anni ’80, con il sorgere di una certa editoria industriale, le collane di poesia si sono molto ridotte e tanti autori che esordivano in quegli anni non hanno trovato un canale. E c’è molto da pubblicare, specie tra gli autori italiani delle ultime generazioni; poi abbiamo in cantiere antologie tematiche e alcune riscoperte di autori dimenticati del Novecento. Vorremmo recuperare un po’ di quel pubblico che l’ermetismo e la neoavanguardia hanno spaventato. E purtroppo nelle università ci sono tuttora rigurgiti di neo-vetero-avanguardisti vecchi e giovani… mentre dovremmo curare libri che abbiano una maggiore leggibilità».
A 23 anni hai diretto Braci, la rivista attorno a cui si sono raccolti Beppe Salvia, Arnaldo Colasanti, Marco Lodoli, Gino Scartaghiande… Cos’ha significato?
«L’abbiamo vissuto come luogo di discussione, da clandestini, visto che condividevamo un ritorno ai classici anche polemico e sentivamo molto forte la fine della guerra fredda e delle ideologie. Discutevamo molto della lingua come fatto etico prima ancora che fatto politico e sociale, cioè della lingua come aderenza alla verità della cosa e dell’essere. E dunque di una letteratura impegnata moralmente, come responsabilità di verità, prima ancora che politicamente. Negli ambienti letterari dei primi anni ’80 queste erano pure bestemmie».

[questa intervista è comparsa su Letture n.630, ottobre 2006]

Concludo con tre poesie tratte da Attorno al fuoco:

***

Oggi una bomba quasi non mi prendeva.
Fuori non puoi andare perché è tutto minato.
Non puoi parlare con nessuno
perché ci sono spie ovunque.
Ho acceso la televisione:
dei giovani venivano utilizzati
sfruttando il loro desiderio di apparire,
intervallati dalla pubblicità.
In una pubblicità avvenivano stupri
impressionanti,
poi veniva detto che noi siamo bestie
e non esiste altro che il mercato.
Una signorina disgraziatamente
mentre diceva che la pubblicità è bella
e che lei è stata condizionata dalla pubblicità
è stata presa da una bomba.

***

È una guerra dove non c’è da combattere,
cadono bombe, e basta,
ti colpiscono per strada, dal fruttivendolo,
nei cinema, nei supermercati, nei luoghi di lavoro,
anche a casa: entrano dalla finestra
e ti esplodono in faccia.
Anche se ti costruisci un bunker
cento metri sotto terra,
con le pareti d’acciaio, con le porte di diamante,
anche lì le bombe ti colpiscono.
La gente infatti non va nei rifugi,
né sta in casa, né cerca di nascondersi
ma fa tutte le cose, come se fosse tutto normale,
esce lavora va al bar va a divertirsi
come se fosse tutto normale,
come se fosse tutto come prima.

***

Noi della resistenza non è che andiamo in strada a sparare,
né ci nascondiamo in montagna,
né scriviamo sui giornali,
noi della resistenza non facciamo niente
ma quando moriremo avremo nella nostra mente
un ordine beato che ci ha consolato,
che ci ha accompagnato nella vita, ci ha dato gioia
e felicità, ha fatto sì che la vita valesse veramente viverla,
morderla con tutti i denti come un pomo,
e quando moriremo questo paradiso
che noi abbiamo trovato, che era per strada
sotto gli occhi di tutti,
lo porteremo con noi sotto terra
e anche sotto terra continuerà a brillare.

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  1. Mirko Salotti ha detto:

    “Complessità non caos” è il titolo di un incontro che come volontario sanitario volevo proporre anche a medici specialisti in Psichiatria. Il medico e il personale sanitario fa spesso i conti con stress e con situazioni correlatee e prolungate che divengono quasi sindrome patologica (cd. burn out). Come proporre allora di fare qualcosa di più? di avere più sensibilità e di ampliare il ventaglio delle risposte anche per sofferenti psichici? Proporre di farlo questo di più..ma ribadire che è in qualche modo un “cosmo”, un ordine, una fatica che darà quel senso di “essere più a posto”, essere più adeguati, poter cambiare ancora..in meglio.

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