Abitare nella possibilità
Dopo il saggio del 2002 A che cosa “serve” la letteratura?, in cui era arrivato alla conclusione che la letteratura “serve” fondamentalmente a dire la nostra presenza nel mondo e, come uno “strumento ottico” (Proust), a interpretarla, a cogliere ciò che va oltre la superficialità del vissuto, il gesuita Antonio Spadaro, docente di “Introduzione all’esperienza della letteratura” presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, e redattore letterario della rivista “La Civiltà Cattolica”, ha ulteriormente approfondito la sua indagine sul valore e sul senso della letteratura nel recente saggio Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura. Nella prima parte del volume lo studioso traccia un percorso che attraversa e intreccia gli itinerari di critici e scrittori per individuare che cosa sia la letteratura e quali siano i modi per viverla e comprenderla. Passando attraverso concezioni diverse, Spadaro giunge ad “intuire come la “verità” della letteratura stia nella sua “capacità di interpretare l’esistenza e di condurla al di là di se stessa”.
Le posizioni che l’autore prende in considerazione sono quella di Manganelli, secondo cui la letteratura resiste al senso comune, quella di Celan, per cui la parola poetica riesce a superare il grido inarticolato o l’afasia della tragedia, quella di Bo, che attribuisce alla letteratura la capacità di scavare nella regio dissimilitudinis che è l’anima, quella dei New Puritans, che cercano di tenere un’attenzione “casta” sulle storie reali e la loro semplice dignità, quella di Ferlinghetti che valorizza l’”intelligenza lirica” che coglie nella realtà simboli e idee, quella della O’ Connor che attinge con passione al “mistero della nostra posizione sulla terra”, e infine quella di Debenedetti, che forte della sua esperienza nell’ambito del profetismo biblico, sa cogliere tutta la vocazione “profetica” anche della letteratura. Attraversate e superate queste posizioni, Spadaro si sofferma a delineare una più ampia e completa caratterizzazione della letteratura come “interpretazione della vita e delle sue tensioni fondamentali”, per cui essa “è chiamata ad esprimere anche l’esigenza di ulteriorità che è propria dell’uomo: verso un al di là, verso un al di dentro, verso un altrove…”. Ma per realizzare tutto questo è necessario che la letteratura “si confronti con tutto ciò che per l’uomo rappresenta soglie e limite”, per cui, essendo il testo letterario animato da queste tensioni, ad esso può essere riconosciuta “una potenzialità “teologica””: a questo proposito Spadaro si sofferma sull’esperienza critica del domenicano francese Jean-Pierre Jossua, che “riconosce proprio nel limite la dimensione teologica più propria della letteratura”. Sulla base delle letture e delle analisi compiute, Spadaro può affermare che la letteratura, benché “fedele alla realtà storica, qualunque essa sia, è sempre protesa verso altro da sé, è sempre porta d’ingresso, patente, soglia, profezia, passione per il mistero della nostra posizione sulla terra, utopia…mai comunque fatto compiuto e chiuso in se stesso”, per cui “né la critica stilistica, né il punto di vista storicista, assunti nella loro assolutezza, sono chiavi sufficienti per comprendere la forza di un testo letterario”. Il rapporto da intraprendere e intrattenere con il testo letterario deve passare essenzialmente tramite la lettura, una lettura che “interpella mente e cuore e coinvolge il lettore in un viaggio che libera dalla passività di una vita distratta”. Essendo dunque la lettura un’esperienza spirituale, secondo Spadaro, occorre “scegliere un’esperienza spirituale che ci faccia comprendere meglio, dal proprio punto di vista, l’esperienza della lettura” e lui, seguendo le intuizioni del semiologo Roland Barthes e della studiosa di narratologia Marie-Laure Ryan, privilegia quella legata agli Esercizi di Ignazio di Loyola, in cui ogni esperienza spirituale viene associata ad un elemento costitutivo della grammatica di una narrazione: ambientazione, personaggio e intreccio, mentre la lettura rappresenta “un processo di interazione dinamica tra testo e lettore” e dagli stessi Esercizi può essere generata un’attività creativa frutto dell’esperienza filtrata dall’”utilità”. Partendo da questo strumento metodologico lo studioso ha la possibilità di sviluppare in modo nuovo molti dei temi tradizionalmente legati all’esperienza di produzione e analisi dei testi letterari, dall’ispirazione alla lettura critica. Antonio Spadaro si sofferma, con interessanti riflessioni, ancora su alcune importanti questioni, come quella dell’ispirazione poetica, al cui riguardo si chiede se essa sia gioia o malinconia. A suo giudizio, l’ispirazione sta nel discernimento, nella decisione, perché “la poesia può essere anche testimone di una scelta tra due visioni della realtà e dell’esistenza, tra due modi di sentire la vita e l’essere stesso, tra la lingua della malinconia e quella della lode”. A questo proposito nota che se il “Novecento […] ha scelto […] l’abisso inteso come baratro” e “L’arte, come il pensiero, ha privilegiato il nichilismo, la condizione tragica dell’uomo come “essere per la morte”, e l’angoscia come condizione affettiva fondamentale”, la nuova poesia italiana tende a sostituire alla “tematica delle negatività”, la “tematica della positività”, con il recupero “di un saldo e diretto rapporto con la realtà e le cose”. Inoltre si interroga sulla critica letteraria come scelta e percorso, e a questo riguardo si orienta nettamente per liberare l’analisi dei testi “dalle spire stringenti della linguistica e della semiologia, degli approcci metodologici e settoriali” e orientare la valutazione in base al “confronto serrato e fiducioso tra vita e letteratura”, soprattutto nella prospettiva che il valore di un testo si possa misurare dalla sua intrinseca capacità di accrescere il tono vitale nel lettore, in particolare dal fatto che riesca ad “aggiungere vita alla vita”. Infine Spadaro si pone un interrogativo davvero cruciale, ovvero quali caratteristiche possano indicare la religiosità di un testo e che cosa possa far definire un autore “cristiano”: A suo giudizio, “non è la dirittura morale a dire la religiosità di un testo”, ma “un campo morale, dove tuttavia per morale non intendiamo una questione di buoni costumi, ma il campo della dimensione drammatica della vita radicalmente umana, anche quello meno edificante, nella quale è presente la Grazia”. Lo scopo “morale” dell’opera letteraria diventa allora quello di mettere la coscienza del lettore davanti ai grandi problemi del bene e del male, mentre lo scrittore cattolico riterrà l’uomo incompleto in sé, incline al male, ma redimibile qualora i suoi sforzi siano assistiti dalla grazia. Quest’orientamento ha portato Spadaro, nella sua attività di critico militante, a puntare l’attenzione su PierVittorio Tondelli e a far conoscere meglio in Italia scrittori americani come Flannery O’ Connor e Raymond Carver.
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