Lo sguardo negato

Nell’officina di marzo a tema Occhi uno degli esempi citati, parlando dello sguardo, è stata la storia di Amore e Psiche raccontata da Apuleio. Protagonisti sono il dio Eros e la bellissima Psiche, adorata quasi più di Venere sebbene sia una semplice umana. Il fascino che suscita negli uomini provoca, così, la vendetta di Venere stessa che ordina al figlio Eros di far innamorare Psiche dell’uomo più deprecabile che esista. Eros, però, rimane inavvertitamente vittima della sua stessa freccia, innamorandosi della fanciulla. Una volta presala in sposa e condottala nella sua dimora – dove tra l’altro ogni presenza è invisibile – le si palesa solamente di notte ed al buio, imponendole di non cercare in alcun modo di scoprire il suo aspetto.

Nonostante già questo sia un elemento importante e che si presta ad interpretazioni non letterali, vi è un passaggio interessante in cui avviene una sorta di rovesciamento: 

Psiche, mia dolcissima e amata sposa, il destino crudele ti minaccia di un terribile pericolo, per cui ti prego di essere molto prudente. Le tue sorelle, angosciate dalla notizia della tua morte, si sono messe sulle tue tracce e presto verranno a questa rupe; se tu sentissi i loro lamenti, per carità non rispondere, non farti vedere, perché a me daresti un grande dolore ma per te sarebbe addirittura la fine.

Agganciandoci al dictat principale di Eros, qui possiamo vedervi una sorta di “postilla” per cui anche Psiche deve “negarsi allo sguardo”. Come il marito, anche lei non deve farsi vedere da altri occhi umani (sebbene indicato siano quelli delle sorelle).  Se lei, la prescelta, non può vedere il divino, altri umani, ad un livello inferiore, non possono vedere lei. Ora, al di là di interpretazioni più note, come si potrebbe intendere questo ulteriore aspetto? Se, nella loro relazione, Eros/Passione si cela e resta ineffabile per Psiche/Ragione, questa, a sua volta, deve restare non vista, o più chiaramente, inattiva, silenziosa, pena il collasso della loro reciproca coesistenza. Potrebbe tornare utile una frase tratta dai Diari di Cesare Pavese: «La strategia amorosa si sa adoperare solo quando non si è innamorati», laddove strategia stia per ragionamento, logica, premeditazione, preparazione, assenza di istintività.

Quando Psiche, poi, con l’inganno, cerca di vedere Eros, egli «senza dire una parola volò via, sfuggendo ai baci e alle mani dell’infelicissima sposa»: ecco il contatto con quell’ineffabile ed il divino che non è fatto per i sensi umani, inconciliabile e, quindi, inattuabile.

Questo ci porta ad un altro mito che offre un’analoga situazione,  quello di Orfeo ed Euridice

hic, ne deficeret, metuens avidusque videndi
flexit amans oculos, et protinus illa relapsa est,
bracchiaque intendens prendique et prendere certans
nil nisi cedentes infelix arripit auras.

Relapsa est, da relabor che in latino significa “scivolare indietro”, “rifluire” e che Ovidio nelle Metamorfosi sceglie per trasmettere la fluidità e la inconsistenza che Euridice assume nel momento in cui Orfeo, ansioso accertarsi che lei lo stia seguendo, cerca di guardarla, contravvenendo all’ordine degli dei di non voltarsi mai indietro durante la risalita dagli Inferi e vanificando così il dono fatto loro. Euridice – morta ma che sta tornando alla vita per concessione divina – ha ancora qualcosa di non umano mentre sta lasciando l’Averno e per questo l’occhio mortale non può contenere la sua immagine.

Ora, però, prima di andare avanti, mettiamo qui un segnalibro alla lettura.

Parallelamente “il voltarsi indietro” ci porta alla mente un altro sguardo fatale, quello della moglie di Lot mentre fugge dalla città di Sodoma insieme alla famiglia; i messaggeri di Dio hanno indicato loro la via per avere la salvezza: lasciare la città senza mai voltarsi, ma la moglie di Lot cede e voltandosi viene trasformata in statua di sale, proprio per aver voluto guardare (per curiosità o nostalgia) la sua città mentre viene distrutta dalla vendetta di Dio.

Entrambi gli episodi, inoltre, hanno in comune due aspetti: uno geometrico, se pensiamo che il procedere dei personaggi è obbligato nella direzione diametralmente opposta a quella dello “sguardo negato”; l’altro più contenutistico, in quanto l’oggetto dello sguardo negato – che diviene sguardo violato – scompare o  non si fa più percepibile, permane appunto negato, impossibile. 

Parlare, però, di umano e divino ci porta a delle domande: quale meccanismo sorregge questi sguardi negati? Il capriccio della divinità? Il superamento di una prova? O forse tutti questi impedimenti servono a smantellare quel passaggio empirico da ὁράω (vedo) ad οἶδα (ho visto e quindi so) per richiedere, in realtà, un affidarsi totale e, per estensione, un atto di fede?

Fede che, però, abbiamo visto scontrarsi con la debolezza della natura umana non pronta a sottomettersi, o meglio, a coesistere con una realtà/volontà altra ed ancora imperscrutabile.

Lecito, poi, domandarsi se questa inconciliabilità derivi dall’alto o dai limiti degli esseri umani.

In soccorso ci viene un aforisma: “l’occhio vede solo ciò che la mente è preparata a  comprendere”, che potrebbe darci una nuova chiave di lettura come anche rimescolare pericolosamente il mazzo!

Restando allora sui testi classici, ma nostrani, di fede e sguardo negato parla anche Dante Alighieri, nel XX Canto (VIII Cerchio –  IV Bolgia) dell’Inferno dedicato agli indovini: 

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,

ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto. 

Poco più avanti Virgilio sarà più coinciso:

Mira c’ ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.

Il contrappasso è impietoso, coloro che in vita vollero arrogarsi il potere di predire il futuro, di allargare la loro “vista” a materie di natura divina, ora sono sfigurati, col capo ritorto verso le spalle e, non potendo più guardare innanzi, costretti a procedere, così, a ritroso. (Tra gli indovini, Dante non trascura di annoverare anche Tiresia – reso veggente da Zeus – personaggio già menzionato nelle ultime due officine).

In effetti Dante, dello sguardo, ne ha fatto una vera e propria poetica. 

Spostiamoci ora nella foresta sulla cima del Purgatorio (nel I Canto del Paradiso). Dante vede Beatrice fissare intensamente il sole e decide di guardarlo a sua volta

così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.

Lo sguardo di Dante compie uno sforzo oltre quello consentito dalle capacità umane e poco dopo:

Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;

e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.

Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi.

Fissare il sole diviene doloroso, Dante non può continuare, ma può, al contrario, sostenere la vista di Beatrice ed è “guardando il suo sguardo” che Dante riesce ad iniziare quel cambiamento (il trasumanar) necessario per avvicinarsi successivamente alla contemplazione del Sole/Dio. L’ascesa di Dante si può compiere, dunque, solo attraverso un tramite che ha, ormai, legami sia con l’umano che col divino e questo sguardo attraverso lo sguardo diventa l’unica via per soddisfare gli occhi ghiotti del pellegrino.

Forse siamo andati fuori tema, ma avevamo messo un segnalibro poco più su, parlando di Orfeo ed Euridice. Se proviamo ad affiancare le due storie allora diventa tutto uno specchio: le ascese, la prima dall’Ade alla terra e la seconda dalla terra al cielo, le donne amate, una da non guardare l’altra da guardare necessariamente, una da guidare e l’altra da seguire, un divino da cui allontanarsi e l’altro a cui avvicinarsi.

Tutto diventa una specchio e le storie si guardano.

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