Dire l’addio
Una serie di cui solo recentemente l’audience occidentale è venuta a conoscenza e della quale è stata appena lanciata la terza stagione, è Shtisel: in essa si racconta, spesso a tinte ironiche, la vita quotidiana e pur atipica (per noi) di una famiglia haredìm nella Gerusalemme di oggi. Tra fallimentari tentativi di sposalizi, feste e celebrazioni, affetti e aspirazioni personali, scontri di genitori con figli (a tutti i livelli), rigore di vita, scorre un filo sottile di tenerezza che dà senso e tratteggia i caratteri di ogni singolo componente – quando lo si inquadra nella solitudine della sua stanza, lontano dalla vita comunitaria o anche solo familiare. C’è una scena in particolare che riflette questo sentire, che ha tutti i tratti di una profonda devozione: uno dei personaggi reagisce scandalizzato e disperato ad una rappresentazione della donna amata – fissata per l’eternità in un’immagine che ne lascia intravedere i capelli sciolti, cosa considerata assolutamente sconveniente per una fedele e per quella fedele nella fattispecie. Ma invece di distruggere il quadro o reagire furiosamente, come ci aspetteremmo dal tenore della scena e dalla storia del personaggio fino a quel momento, una volta placato si ferma, prende in mano un pennello e incomincia a rivestire con il colore quella parte scoperta, tingendola di azzurro come l’abito della donna, lasciando il resto del lavoro così com’è.
Questa distanza somiglia curiosamente all’amore. Un amore che non trova la sua ragion d’essere nello specchiarsi o nella nudità, nel vedere se stesso negli occhi o nel corpo dell’altro, ma nel comprendere l’altro quando è distante, irraggiungibile e solo; non cercare di afferrarlo, anzi rivestirlo ancor di più anche quando ne è rimasta solo la copia.
Roland Barthes, nel caratterizzare il fenomeno-amore offrendo un ampio spettro della sua semantica in Frammenti di un discorso amoroso, descrive così la «prova dolorosa con la quale l’essere amato sembra sottrarsi a qualsiasi contatto», il suo svanire:
Il fading dell’altro è racchiuso nella sua voce. La voce sostiene, rende leggibile e per così dire realizza l’evanescenza dell’essere amato, poiché è alla voce che tocca morire. L’essenza della voce è ciò che in essa mi strazia a forza di dover morire, come se essa fosse già subito e non potesse mai essere altro che un ricordo.
Questo viene dall’autore esemplificato nell’esperienza quotidiana del telefonarsi:
[…] Attraverso il telefono io cerco di negare la separazione […] ma il telefono non è un valido oggetto transizionale […] il suo significato non è quello del collegamento, bensì quello della distanza […] Si dice che le maschere della tragedia greca avessero una funzione magica: dare alla voce un’origine ctonia, deformarla, straniarla, farla arrivare dall’aldilà del sotterraneo. E, inoltre, l’altro sembra sempre che stia per partire; egli se ne va due volte: attraverso la sua voce e attraverso il suo silenzio: a chi tocca parlare? Cessiamo insieme di parlare: ingombro di due vuoti.
Non più sguardo, riconoscimento tramite la vista, ma impossibilità di ritrovare sé nell’altro, tramite il filo sottile dell’ascolto, pericolo che l’altro svanisca da un momento all’altro. Questa coscienza del fading è possibile solo se si è certi che l’altro non ci sarà e che forse morirà: lo sapeva bene Jacques Derrida, che ne La voce e il fenomeno descrive anche quell’esperienza così familiare che è il monologo a se stessi come “la confessione di un mortale”: il fatto che io mi parli è la constatazione che non sono ancora scomparso, eppure ciò potrebbe succedere da un momento all’altro. Derrida stesso racconta come con Emmanuel Lévinas, autore per lui fratello nel bene e nel male,
quell’angoscia dell’interruzione […] quando, al telefono per esempio, sembrava in ogni istante temere la rottura e il silenzio o la scomparsa, il «senza-risposta» dell’altro ch’egli subito richiamava e riacciuffava con un «pronto, pronto» tra ogni frase e talvolta nel mezzo stesso della frase.
È a questa speranza che si aggrappa la voce: non c’è voce che non sia in sé rivolta ad un altro, alla possibilità che invece l’altro non svanisca ma risponda. La stessa speranza della ninfa Eco, estromessa da sé, mentre era grande la rovina di quel Narciso su se stesso rannicchiato. Narciso, pur riconoscendosi, non ha spazio per alcuno e questo è il problema con cui anche Lévinas cerca di confrontarsi.
C’è un curioso doppio del mito in questione che spiega la sua prospettiva sul tema, l’intima forza ebraica a riguardo che è la stessa dei personaggi di Shtisel. In una delle letture talmudiche svolte di fronte agli intellettuali francesi, il cui tema era la “giovinezza” sulla scorta dei moti del ’68, Lévinas sceglie di commentare due sezioni del Talmud sull’istituzione del nazireato per dare un’interpretazione sia degli eventi storici, sia della giovinezza in sé e del suo afflato di giustizia. I nazirei – di cui un famoso esempio scritturistico è Sansone – erano giovani votati per un anno di tempo alla purificazione di sé astenendosi da bevande alcoliche e prodotti della vite, non radendosi, evitando il contatto con i morti: se anche una sola di queste circostanze fosse stata malauguratamente non ottemperata per errore, il giovane in questione doveva presentarsi al tempio per un rito di purificazione e ricominciare il suo anno da zero. Di ciascuna di queste clausole Lévinas offre sottili esegesi, le quali culminano tutte nel racconto di un aneddoto che vede protagonista un sacerdote, Simeone il Giusto: egli si era sempre rifiutato di officiare alla purificazione di un nazireo il cui anno fosse stato casualmente interrotto, perché scettico sulla sincerità e l’integrità del giovane che si vedeva costretto a rifare tutto da capo… tutto ciò tranne che per un solo nazireo:
Aveva un bell’aspetto, begli occhi, e una chioma che ricadeva in bei boccoli […] «Io ero pastore nella mia borgata, e badavo alle greggi di mio padre. Andavo a bere al torrente, e ci ho visto, un giorno, la mia immagine… la mia cattiva inclinazione (o il mio “istinto cattivo”? o la mia “persona”? o il mio “io”?». Il termine usato, che ho cercato di tradurre, è Jitzrì, il mio Jétzer, sostantivo che rimanda al verbo «Jatzòr», creare. Jitzrì: forse, «ciò che di creatura è in me»). E allora Jitzrì si è infuriato (o si è inebriato) e ha cercato di scacciarmi dal mondo (o dal mio mondo). Io gli ho detto: «Buono a nulla, tu cavi orgoglio da un mondo che non ti appartiene e dove finirai nei vermi. In nome di Dio, ti farò tagliare i capelli» […] E il Toseftista commenta: «Fin dal primo momento il voto di colui era votato al Cielo», era disinteressato. […] Si tratta di quel disinteresse che si oppone all’essenza di un essere la quale è sempre precisamene persistenza nell’essenza, ripiegamento dell’essenza su se stessa […] non ad essere bello, ma a guardare la propria bellezza. Si è rifiutato a questo narcisismo che è la coscienza di sé, sulla quale è costruita la nostra filosofia occidentale e la nostra morale.
Il giovane pastore, nello specchiarsi, si rivolge e proferisce parola (la sua voce, appunto) contro se stesso, parla a se stesso come ad un altro. Siamo capaci di mantenere una distanza da noi e persino di ammonirci, quando siamo insoddisfatti con ciò che vediamo: ma siamo certamente incapaci di reale apostasia con noi stessi, perché anche solo biologicamente continuiamo ad essere quel “sé”, che ingloba l’altro. Eppure, questo aneddoto ci insegna il contrario e che, più che mantenere l’aderenza alla nostra immagine mortale (Jitzrì), bisogna ripudiarla per fare spazio ad altro (votarsi non in nome di stessi, bensì “in nome dell’Eterno”).
Secondo Lévinas, il vero nome dell’io non è al nominativo, ma all’accusativo: “me”, “me voici”, che è l’eccomi mosaico. Il che significa anzitutto la natura della soggettività: ciò che io sono veramente non sono io, ma sono l’apertura all’altro fino al livello della sostituzione, l’”esserci per” l’altro come essere ostaggio dell’altro. Ostaggio, non specchio, voce e non visione. Il che vuol dire che sono responsabile dell’altro non perché si debba rendere a me una promessa, un tornaconto, e così un ritorno su di sé e una dialettica pacificante, una mirabile simmetria hegeliana: nell’identità di me con l’altro, pesa più la differenza. Il che è segno in senso lato di un’escatologia senza finalità, tutta ebraica se così si può dire: un Messia sempre di là da venire, la cui manifestazione non è mai data per certa.
Che cos’è questa confessione, questa esasperata trascendenza, questa incontenibile distanza? Abbiamo detto poc’anzi che somigliava curiosamente all’amore: forse, più appropriatamente, somiglia alla coscienza dell’amore, la coscienza che sa l’altro come altro e non mio, che sa la parola “addio”. Parola che ci spossessa e che ci destina all’altro uomo per il quale questo addio significa – come insegna Derrida:
Penso che addio possa significare almeno tre cose: 1. Il saluto o la benedizione data […] 2. Il saluto o la benedizione data nel momento di separarsi, o di lasciarsi, talvolta per sempre (e non lo si può mai escludere): senza ritorno quaggiù, nel momento della morte. 3. L’ad-Dio, il per Dio o davanti a Dio prima di tutto e in ogni rapporto all’altro, in ogni altro addio. Ogni rapporto all’altro sarebbe, prima e dopo tutto, un addio.
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