Cuteness
In un saggio pubblicato lo scorso anno sul numero estivo della rivista “Critical Inquiry” (*), Sianne Ngai, professore di letteratura a Stanford, presentava una lista di concetti estetici recenti quali glamorous, whimsical, luscious, cozy rileggendo il modernismo americano (in particolare Tender Buttons di Gertrude Stein) alla luce di uno di essi: il cute.
Questo termine, oggi d’uso comune negli U.S.A. e traducibile con grazioso, carino, tenero, assunse il significato corrente all’inizio del Novecento quando l’incremento della produzione industriale americana, spingendo al lavoro fuori casa gran parte della popolazione, ridefinì la visione del focolare domestico e le aspettative degli adulti nei confronti della prole.
Si diffuse allora l’immagine di quello che lo storico Gary Cross chiama il New Kid: un bambino ideale in cui le attitudini alla vivacità e alla vulnerabilità caratteristiche dell’infanzia sconfinano nell’animalità e nell’inferiorità, concorrendo a rinforzare negli adulti l’idea di una superiorità compiaciuta e amorevole. Nacque, dall’idealizzazione vittoriana del fanciullo, una diversa idealizzazione dell’innocenza infantile. In pochi anni, per indurre i bambini a comportamenti adeguati all’idea che gli adulti avevano di loro, l’industria del giocattolo, il merchandise legato al fumetto, all’illustrazione e al cinema animato diedero al New Kid anche una forma. Di questa forma, e della sua efficacia, in molti hanno fatto esperienza anche in Italia: avvertire la speciale vulnerabilità che sprigiona dalle creature del cute, osservandole sul Web come icone o disegnate sopra accendini e lattine o nei fumetti e nelle serie animate è infatti un fenomeno sopraffacente, raramente accompagnato dal desiderio di conoscere cosa, in quei momenti, condiziona la nostra attenzione. Chi volesse saperlo, scoprire il meccanismo di questa persuasiva estetica del consumo, potrebbe ritornare a quando, circa un secolo fa, soggetti iconografici diversi iniziarono a essere deformati nel senso delle forme del neonato umano, forme capaci d’innescare nell’adulto irresistibili reazioni d’affetto. Potrebbe, in questo modo, rendersi conto di ciò che il cute divenne allora: un filtro formale di semplicissimo uso e idoneo a restituire qualsiasi soggetto in sembianze diverse dalle naturali, in forme semplificate e commercialmente attraenti perché dotate d’una “tenera deformazione”.
La creatura cute, sia essa stata all’origine un bambino, un animale o un utensile, ci attrae perché una natura diversa è stata data al soggetto che era: una natura tenera e inferiore, mostruosa ma commovente. Una bambino, sottoposto al cute, diventa un soggetto cui ancora accordiamo una parvenza di vita; ma, se da un lato la sua rotondità intenerisce, ricordando la guancia di un neonato, dall’altro commuove, perché la funzionalità anatomica umana si è mutata nell’’“handicap”, nel difetto di un essere “altro”.
Riprendendo brevemente il saggio di Ngai, dedicato ai rapporti tra il cute e le avanguardie, vorrei proporre alcune considerazioni utili a suggerire relazioni tra il cute e la storia dell’arte e della letteratura.
L’estetica del cute non limita la sua influenza ai prodotti del voluttuario o ai personaggi che circolano sul Web, sui media e su quelle che una volta venivano chiamate popular arts. Si è parlato di rapporti tra cute e letteratura per i romanzi di Banana Yoshimoto e, in generale, è possibile riconoscere in qualsiasi “twittering use or style of language” una presenza di cute. Ma, soprattutto, sulla scorta delle due proprietà (piccolezza e incompletezza) con le quali Ngai avvicina il cute alle poetiche delle avanguardie, si potrebbe pensare, per l’Italia, al frammentismo vociano e al Crepuscolarismo. In senso più generale, però, è da sottolineare come le proprietà di questa estetica, incompletezza, piccolezza, vulnerabilità, deformazione, rendano plausibile avvicinarla a passaggi e problemi nodali dell’arte e della letteratura dell’inizio del secolo scorso come l’uscita dal Naturalismo e dall’Impressionismo, come la necessità di comunicare l’alienazione dell’uomo e la frammentazione dell’io. Più da vicino, è plausibile annettere al passaggio dal Naturalismo all’Espressionismo la novità formale che meglio di ogni altra caratterizza il cute: soggetti non più dettagliati e realistici ma deformati, seppur deformati seguendo una direttrice costante, specifica e data.
Per concludere, e in merito a quest’ultimo punto, suggerisco allora un’opera di un nostro espressionista dei primi anni del secolo scorso, Lorenzo Viani. È un’immagine del 1922 dove la bambina, imbronciata e resa con tratti abbozzati, oltre a ricordare le figure che un’autrice dai modi cute come Grace Drayton disegnava in America negli stessi anni, stringe, dando vita a una mirabile coincidenza, un bambolotto di nuova forma; si tratta forse proprio uno di quei Kewpies che, negli anni Venti, contendevano ai pupazzi della Drayton il primato di New Kid più desiderato da adulti e bambini.
Rose Cecil O’Neill, Kewpie, cartolina natalizia, 1919
Lorenzo Viani, La befana della bimba povera, olio su cartone, 1922
(*) Sianne Ngai, The Cuteness of the Avant-Garde, in “Critical Inquiry”
Summer 2005
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