I radiosi oggetti di Walcott

Derek Walcott

Derek Walcott

Mentre qui da noi le pagine della rete alimentano forse anche troppo una discussione su cosa sia la nuova epica italiana, quali dinamiche abbia messo in movimento e quale sia il suo rapporto con l’italico pubblico, che, com’è noto, non è poi così avvezzo alla lettura e spesso si innamora di oggetti-libro che fanno tendenza per poi riporli sullo scaffale; bene, mentre questa discussione infiamma e fomenta senza produrre un gran costrutto oltre all’illusione di essere sul fronte di una battaglia che comunque altri realmente combatte, ecco che la parola di un poeta, smagliante, concisa, mai ridondante viene in soccorso a chi dalla scrittura si aspetta squarci sull’uomo, sul suo destino, sul suo rapporto con le cose, apertura di questo e altri mondi più che discussione su derive, spiriti del tempo e storie di specie.
In un’intervista rilasciata al quotidiano Il Manifesto, Derek Walcott, Nobel per la poesia – ed uno degli ultimi veramente credibili nella storia del prestigioso riconoscimento – così si esprime sul rapporto tra tra parola e mondo.

Come la pittura, la poesia “distilla arte attraverso il filtro della vita quotidiana” e la sua grandezza sta nel “cogliere movimenti o momenti alla ‘apparenza scontati o impercettibili”. Walcott poi lascia la parola ai suoi versi dove nei panni del Tiepolo afferma di non fare arte “per ambizione ma per toccare il sublime, per innalzare il luogo comune sino alla sacralità di oggetti resi radiosi dal lento smalto del tempo”.
E’ miracoloso osservare come la potenza di poche parole abbia la meglio su dibattiti e opinioni restituendo il senso profondo della parola per chi a vario titolo partecipa a questa strana attitudine umana che non si accontenta di vivere ma vuole, da sempre, chiosare, commentare e cesellare l’esistenza. Noi scriviamo, leggiamo, partecipiamo, ci innamoriamo delle parole soltanto per questo: perché ci vengano resituiti momenti in cui anche solo un aggettivo riveli qualcosa di noi e del reale che mai avervamo visto. Noi scriviamo e leggiamo perché in fondo sappiamo che il mondo non deve essere risolto ma riscattato, e che talvolta la parola dona un empito di pienezza che lascia intravvedere altro dentro di se pur senza affatto rinunciare a tutta la propria carnalità a tutta la propria finitezza.

Ben vengano, allora, i dibattiti che incrociano senso dello scrivere e prassi politica, ci sarà sempre spazio – come è giusto – per chi spera di cambiare il mondo con le parole, e giornali, riviste e siti saranno stracolmi di commenti, stroncature, incoraggiamenti; l’importante è però che di tanto in tanto venga voglia di ascoltare questo tipo di voce così poco pretenziosa, così inerme eppure capace di provocare voragini nei cuori; perché ancora oggi la parola esiste per restituire a tutti la possibilità di credere che esistano momenti illmuinati da questa pienezza: ad altri il compito di scoprire mondi, questo per noi è il mondo, scriveva John  Donne per decsrivere l’apice dell’amore tra un uomo e una donna. Anche solo per rivelare un istante di questa pienezza continua a esistere la scrittura: mai stanca come diceva il grande poeta polacco Herbert in una poesia dedicata a cinque uomini fucilati “di offrire al mondo tradito una rosa”.

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  1. Maurizio C. ha detto:

    si può cambiare il mondo se lo si ama… la parola che rende radiosi gli oggetti è l’unica che può muovere ad un vero combiamento (mentre molta epica italiana vole cambiare il mondo mentre lo disprezza)

  2. Maura Gancitano ha detto:

    Non so, secondo me dire che “molta epica italiana vuole cambiare il mondo mentre lo disprezza” mi sembra ingeneroso e inoffensivo, a parte il fatto che non permette alcun tipo di discussione. Oltre che infondata (per quanto possa emergere dai romanzi), diventa un’accusa inefficace.
    Dire che “si può cambiare il mondo se lo si ama” e che “la parola che rende radiosi gli oggetti è l’unica che può muovere ad un vero cambiamento” è giustissimo, secondo me, ma rischia di rimanere un’espressione astratta. Credo sia necessario andare più a fondo e cercare di capire cosa non va in questi romanzi neo-epici o in generale nella narrativa italiana di oggi, perché diversamente rischiamo di non farci capire.

  3. Maurizio C. ha detto:

    be…,
    astratto lo sono stato di sicuro. Ingeneroso, spero di no
    (o almeno: ci sono scrittori “orgogliosi” di disprezzare l’Italia contemporanea). Inffensivo, spero proprio di sì! ;)

    Volevo solo rompere una distinzione sottesa al pezzo di saverio tra:
    a) chi spera di cambiare il mondo con le parole
    b)la parola che rivela pienezza.
    Perchè secondo me è questa seconda che muove il cambiamento. Un romanzo come Scirocco (g. Di Michele) o, in parte, Gomorra secondo me falliscono in quanto si dimenticano di dirmi perchè dovremmo cambiare il mondo. Si dimenticsno di risvegliare le bellezza delle cose e degli uomini che è la sola cosa che può motivarmi al cambiamanto.
    Per provare ad andare più a fondo, in passato ho provato ad approfondire il discorso qui:
    http://www.booksbrothers.it/extra/2/1/376/1

  4. Maura Gancitano ha detto:

    L’articolo che hai linkato mette in luce una cosa che ho notato di recente leggendo una bella opera prima, in cui ho ritrovato uno sguardo presente in quasi tutte le opere prime lette negli ultimi anni. Uno sguardo “angosciato”, l’incapacità di concludere, di operare un cambiamento, uno scavo nel dolore e nella personalità dei personaggi che però non porta a niente, un racconto che non diventa esperienza, in cui ogni occasione è un’occasione perduta.
    In genere in questi romanzi si racconta di persone sole, “diverse”, molto interessanti ma anche piuttosto disadattate, di cui il lettore si innamora, in cui in qualche modo si riconosce. Ebbene, in genere queste (due) persone (che possono essere di qualsiasi età, di qualsiasi sesso e tra cui può nascere qualsiasi tipo di rapporto) si incontrano, capiscono l’una attraverso l’altra dove hanno sbagliato fino a quel momento e chi sono (o possono essere) veramente, ma poi non riescono a fare il passo successivo, finendo col perdersi, col continuare a comportarsi allo stesso modo, talvolta con l’uccidersi.
    Si tratta di un discorso che si può estendere sicuramente a “La solitudine dei numeri primi”, romanzo rivelazione di quest’anno e in cui c’è lo stesso sguardo privo di speranza, in cui la storia si sgonfia piano piano, e alla fine non si conclude neppure, in un certo senso si lascia concludere, passivamente.
    Ciò che è peggio è che alla base di questi romanzi non c’è la ricerca della “speranza”, del “senso”, ma c’è quasi la certezza dell’ineluttabilità di quello che succede o che è successo. I protagonisti del romanzo di Giordano non capiscono di essere stati loro ad eliminare la possibilità di essere felici, ma pensano che forse così doveva andare, era inevitabile, perché ci sono nati, perché sono dei numeri primi che stanno molto vicini ma che non entrano mai in un rapporto vero l’uno con l’altro.
    Purtroppo non è neanche tanto un’idea post-adolescenziale, ma si ritrova anche in romanzi maturi e, in modo diverso, sta a fondamento anche della NIE. In fondo, è uno dei problemi maggiori della nostra società (parlo dal punto di vista della “relazionalità”), ma limitarsi a “metterlo in scena” in questo modo, sottolineandone l’ineluttabilità, secondo me non ha alcun senso.

    Per quanto riguarda De Michele, peraltro, sto scrivendo (ovvero ho in mente di scrivere) una recensione all’ultimo romanzo, servendomi di alcune intuizioni che Demetrio Paolin ha avuto nel saggio “Una tragedia negata”, e che secondo me riguardano tutta la narrativa italiana, non solo quella sugli anni di piombo.
    Ne “La visione del cieco” De Michele non usa il verbo essere, e questo ha un gran numero di conseguenze, secondo me.

  5. saverio simonelli ha detto:

    Molto d’accordo. Il problema è quando la stesura di una storia rimane solo attenzione ai personaggi come fossero appunto fattori di un’equazione destinata a risolversi nel nulla. Credo che la frase sulla parola che rende radiosi gli oggetti non è astratta quando riferuita chiaramente alla ricezione singola dell’opera. Noi crediamo che la letteratura non cambi le cose ma il cuore anche di un singolo lettore attraverso l’immersione in un testo che diventa “il suo testo”. Ora questo difficilmente accade quando la letteratura dimostra di essere interessata soltanto alla concatenazione alla dimostrazione al marchingegno del fatto ma si verifica solo quando la pagina illustra ancvhe semplicemente un segno di qualcosa che trascende l’atto di scrivere, racconta di un cuore che si confronta con quei segni su carta perché per istinto naturale vuole misurarsi con la cose reali, e cioè non le condizioni socio-politiche economiche ma le reazioni profonde di ogni lettore il suo metro nello stare al mondo.

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