Disperazione vs. Patriottismo

Il punto non è che questo mondo è troppo triste per essere amato o troppo felice per non esserlo, ma è che quando si ama qualcosa, la sua felicità è una ragione per amarla e la sua tristezza una ragione per amarla di più. Tutte le idee ottimiste sull’Inghilterra, e tutte quelle pessimiste, sono buone ragioni per il patriota inglese. Allo stesso modo, sia l’ottimismo sia il pessimismo sono argomenti per il patriota universale. (G.K. Chesterton, Ortodossia)

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 L’altra sera, uscendo dal cinema dopo aver visto due film, ho provato un terribile senso di angoscia: Miss Violence, girato dal regista esordiente Alexandros Avranas e premiato con il Leone d’argento e la Coppa Volpi, insieme a The Canyons, diretto dal più esperto e navigato Paul Schrader, mi hanno letteralmente messo k.o.

In Miss Violence la storia raccontata svela un po’ alla volta le nefandezze che si celano dietro la facciata per bene di una famiglia borghese. La struttura è quella del labirinto vietnamita dove lo spettatore, costretto in un cunicolo stretto e buio, è spinto a seguire le tracce lasciate con grande abilità dal regista, ricomponendo così un’inquietante puzzle che mostra l’immagine inumana della violenza estrema imposta dall’autoritario capofamiglia alla moglie, ai figlie e ai nipoti, costretti anche se giovanissimi alla prostituzione. Una violenza a cui nel finale non si potrà che rispondere con ulteriore violenza.

The Canyons narra invece le vicende amorose di cinque giovani ragazzi a Hollywood. Come in Miss Violence il velo dorato che avvolge la capitale del cinema viene squarciato, ma questa volta ciò avviene già a partire dalle primissime immagini, in cui il regista ritrae un panorama squallido, privo di valori e dove gli uomini vivono inseguendo senza un attimo di tregua i due idoli del presente: il sesso e il denaro. L’esile trama è il pretesto che serve a Paul Schrader per emettere la sua sentenza di morte nei confronti della settima arte: come ha già raccontato su questo blog Damiano Garofalo, il film si conclude con le immagini di sale cinematografiche abbandonate, un vero e proprio epitaffio sul cinema che ormai non ha più ragione di vivere in un mondo dove tutto è visibile, dove tutto è già mostrato.

Entrambi i film mi hanno deluso. Se di The Canyons ho apprezzato lo stile e l’atmosfera che arricchiscono una trama di base altrimenti poco interessante, di Miss Violence non mi è piaciuto assolutamente nulla. Il motivo per cui scrivo è però un altro ed è dovuto alla preoccupazione per una certa tendenza, per un certo modo di fare cinema ormai molto diffuso e che entrambe le pellicole, in modi diversi, confermano.

Alexandros Avranas con il suo rigore formale e il suo freddo distacco mi ricorda il pessimista di cui parla Chesterton in Ortodossia, ovvero quell’uomo che invece di guardarvi negli occhi vi guarda i piedi e considera tutto cattivo tranne se stesso. L’egoismo del pessimista lo porta a non vedere la terza dimensione dell’uomo, la sua umanità e le immagini proiettate sullo schermo non risultano altro che ombre cinesi, proiezioni di un mondo distorto, non reale, appunto disumano. Avranas allo stesso modo del suo maestro, il regista austriaco Michael Haneke, studia i comportamenti umani come l’etologo studia gli insetti, senza pietà.

Credo però sia giusto pensare che sia proprio la pietà ciò che rende una storia degna di essere raccontata, perchè solo chi è capace di vedere nell’altro un barlume di umanità, anche nelle situazioni più buie e disperate, allora avrà modo di scriverne una storia, dal momento che è l’uomo, nella sua umanità, la materia che dà forma alla storia. Non è un caso che l’uomo non ha mai raccontato storie di cui egli stesso non fosse la materia fondante, “l’argomento” di maggiore interesse, l’alternativa sarebbe una storia inautentica, superficiale, magari un bell’esercizio di stile ma che suona come una moneta falsa.

In proposito è illuminante un brano tratto da Il potere e la gloria di Graham Greene:

Considerando con attenzione un uomo o una donna, si poteva sempre cominciare a provarne pietà. Era una qualità insita nell’immagine di Dio. Quando si erano vedute le rughe agli angoli degli occhi, la forma della bocca, il modo in cui crescevano i capelli, era impossibile odiare. L’odio era semplicemente una mancanza di immaginazione. Di nuovo egli cominciò a risentire una responsabilità enorme per quella pia donna”.

Questo senso dell’umanità è quindi strettamente collegato ad un senso di verità, una verità che nasce da un’osservazione più profonda e attenta della realtà, che non abbassa lo sguardo per terra e non limita l’ampiezza dell’orizzonte. Se il cinema è l’arte del mostrare allora saper osservare da parte del regista è una necessità preliminare e fondamentale. Oggi la malattia della settima arte mi sembra risieda non tanto in una crisi del cosa mostrare, quanto in questa debolezza o limitatezza dell’osservazione, dovuta ad una mancanza di anelito e di ricerca della verità sull’umano, ad uno sguardo che non dà spazio all’immaginazione e quindi alla pietà.

Nel film The Canyons mi è sembrato invece di percepire un senso di rassegnazione da parte del regista Paul Schrader, una sensazione di malinconia per un passato e dei valori ormai perduti che mi ha ricordato qualcosa di Cormac McCarthy. Lo spirito dello scrittore americano però non è di mera rassegnazione quanto di accettazione, un’accettazione che può esistere perchè sorretta dalla certezza che nonostante la verità esiste:

Siamo venuti qui dalla Georgia. La mia famiglia, intendo. Carro e cavallo. Questo lo so praticamente per certo. So che nella storia di una famiglia ci sono sempre un mucchio di cose inventate di sana pianta. Nella storia di qualunque famiglia. Le storie si tramandano e la verità si tradisce. Come si suol dire. E probabilmente c’è chi pensa che ciò vuol dire che la verità non è abbastanza forte. Ma si sbaglia. Secondo me, dopo che tutte le bugie sono state dette e dimenticate, la verità sta ancora lì. Non va da nessuna parte e non cambia da un momento all’altro. Non si può corrompere, così come non si può salare il sale. Non si può corrompere perchè è quella che è. E’ la cosa di cui stai parlando. L’ho sentita paragonare a una roccia – forse nella Bibbia – e sarei anche d’accordo. Ma la verità resterà qui anche quando la roccia non ci sarà più. Sono sicuro che qualcuno non sarebbe d’accordo con questa idea. Parecchia gente, anzi. Ma questa gente non sono mai riuscito a capire in cosa creda. (Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi)

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Come avviene nel film di Avranas così anche la storia di Schrader racconta personaggi in cui si stenta a riconoscere qualcosa di umano. Qualcuno potrebbe ribattere che l’avidità è qualcosa di umano così come sono umani sia la violenza sia l’odio. Il discorso che sto cercando di fare è però diverso e ha a che fare con quello sguardo limitato, quella crisi di osservazione sopra accennata.

Per cercare di semplificare il discorso mi viene in soccorso una reminiscenza degli studi che ho compiuto per un esame di tecniche della recitazione. Ricordo infatti di aver letto da qualche parte che un attore non sarà credibile agli occhi dello spettatore fintanto che reciterà un sentimento di gioia provando unicamente gioia e che l’unico modo per esprimere un’emozione in modo credibile è esprimere allo stesso tempo il sentimento opposto. Il cuore umano riconosce la verità e nella verità convivono sia il bene che il male. Oggi mi sembra invece che si tenda a semplificare troppo la realtà, estremizzando alcuni aspetti e isolandoli dal resto, facendo perdere così il contatto con la complessità del reale e inducendo nello spettatore un senso di sfiducia nell’umanità.

Il male, grande tema di tutte le narrazioni, è diventato da motore delle storie a unico protagonista, che inevitabilmente spadroneggia in modo squilibrato, smisurato. A questo punto diventa vana anche l’osservazione di Paul Ricoeur per cui il male non lo si può spiegare, ma solo raccontare, perchè lo si può raccontare solo se è uno degli elementi della storia, ma non quando coincide con la storia intera. In un mondo tutto buio, l’uomo nero non si vede. Il problema allora è di prospettiva, come evitare il gioco delle ombre cinesi e dare spessore e profondità a questo cinema che ha sempre più perfezionato la confezione tecnica e formale del suo prodotto? Forse la risposta è in quel “patriottismo” indicato dall’affermazione iniziale di Chesterton. Il patriota può apparire “sbilanciato” ma il suo squilibrio è sano, perchè egli ama la propria terra e scorge un motivo per amarla sia nel bene che nel male, nel rispetto della verità e della sua complessità. Lo sguardo del patriota è dunque il corretto punto di osservazione che forse oggi manca al cinema, affetto da cinismo e nichilismo: quando la narrazione non riesce più a raccontare storie umane, diventa “finzione per la finzione”, un gioco fine a se stesso.

Oggi sono pochi quei registi “patrioti dell’umanità” come ad esempio P.T.Anderson che, anche quando racconta storie molto cupe, come in The Master, si pone in una prospettiva capace di cogliere l’umanità anche nelle persone più disperate, sole ed emarginate che si considerano abbandonate da tutti, anche dall’amore di Dio. Spero quindi che si torni sempre più a osservare in profondità, a estendere i confini della visione e a lottare come il patriota, perchè altrimenti si rischia di scadere nella banalizzazione e nella superficialità, le forme predilette dal male.

magnolia

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  1. Andrea Monda ha detto:

    questo lungo e intenso articolo di maurizio si ricollega alla domanda che era sottesa anche al mio precedente “Meraviglia vs. Nichilismo”: perchè, come dice il vangelo di Giovanni, gli uomini preferiscono le tenebre? In particolare negli ultimi decenni, sembra che la luce del cinema (il cinema è luce) sia puntata solo verso gli abissi più cupi, del non-senso, del vuoto, della malvagità, della spietatezza e quelle poche eccezioni che provano ad mantenere una luce più larga, “stereoscopica”, fanno maggiore fatica, quasi non venissero apprezzati. Come mai il male esercita più fascino, a livello di narrazione, del bene?

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