Ikea. Preludio.
Giorni fa ho messo piede qualche ora all’Ikea, ai miei occhi minuscola oasi di genio e follia nel cuore del complesso commerciale Porta di Roma. C’ero stato solo un’altra volta, un anno fa, ed ero rimasto incantato dalla cura di certi dettagli, dal bigliettino attaccato alla scatola dentro l’armadio (Calze di lana Marta), alla lavagnetta vicino al frigo con scritta la lista della spesa; trovo degno di menzione che ci fosse addirittura un giubbotto a corredo dell’appendiabiti nella stanza dei bambini. Rosicavo, abbastanza, per non essermi portato dietro un’agendina, un foglio di carta, un fazzolettino per il naso su cui appuntare dei pensieri, una descrizione seppure breve, sommaria, della consistenza truciolosa delle polpettine svedesi. Nel timore di smarrire tanta bellezza, avevo raccontato ai colleghi in ufficio ogni particolare, ogni dettaglio da cui ero rimasto colpito, affinché al ricordo degli arredi si unisse, rafforzandolo, il ricordo di averne parlato. Mese per mese mi sono innamorato delle minuzie con cui ornavo, descrivendole, cataste enormi di portaposate cilindrici, ammucchiati uno sull’altro, ornati da fori circolari. Sbiadiva al contrario, giorno per giorno l’euforia con cui avevo approcciato un universo a me quasi del tutto sconosciuto e con quel velo di incanto se ne andavano anche le parole adatte a metterlo in scena.
Sapevo che tornare sarebbe stato diverso, che forse non sarei riuscito a risvegliare quelle stesse emozioni che desideravo mettere a fuoco. Le prime due ore ho riempito pagine di appunti, sul contenuto dei cassetti, sui bigliettini, sulla disposizione di libri e cd negli scaffali, senza arrancare nella scelta degli avverbi, nella costruzione delle frasi che ripetevo quasi a memoria. Come la Delorean insegue le ottantotto miglia orarie necessarie a innescare il salto temporale, io ripercorrevo fiducioso i passaggi che avevano risvegliato il mio entusiasmo dodici mesi prima. Poi l’imprevisto sotto forma di brontolio allo stomaco, la variabile impazzita. La fame ha scombussolato il percorso, non mi ero ancora concentrato su come l’incombere della stanchezza giocasse strani effetti sul volto degli altri visitatori (come le lancette di un orologio: vivaci e allegri appena entrati, pacati al secondo caffè, rassegnati all’oblio solo dopo qualche ora) che io stesso mi trovavo costretto in fila per ottenere la mia porzione di polpette e purè di patate. E forse un po’ stanco lo ero anche io, iniziavo a chiedermi se non avessi fatto meglio a rimanere comodo, sul divano di casa, piuttosto che tornare alla ricerca del velo di incanto, dello stupore.
Ho cercato compagnia nei discorsi delle persone sedute vicino: i capricci di una bambina alla visione di un enorme Babbo Natale, accasciato su una poltroncina tra il bar e la mensa, il diverbio tra i genitori su chi dei due avesse dovuto insegnare alla piccola ad accettare un rifiuto. I panni sporchi delle famiglie, discorsi estranei al come montare le mensole, a dove piazzare il tavolo rispetto al televisore, non li avevo presi in considerazione e a un tratto ne ero curioso. Scriverne forse avrebbe aggiunto valore al mio reportage e poi l’altoparlante era stato chiaro, invitando a consegnare la letterina dei regali al vero Babbo Natale. Non una misera controfigura, ma l’autentico lappone sceso a Roma per l’occasione. Forte l’istinto di scoprire come avrebbero reagito i più piccoli alla rivelazione perentoria della menzogna celata in tutti gli altri omoni barbuti incontrati finora nei negozi, per le strade, per quanto questo nuovo input avrebbe avvolto il mio racconto di una sfumatura festiva non contemplata nella versione originale, costringendomi a spostare date, riferimenti, incastrare diversamente dettagli, perché tutto quadrasse in un’armonia generale.
Lo stupore insomma. E le infinite altre cose che avrei potuto notare, registrare, analizzare da questa esperienza, reiterandola altre dieci, cento, mille volte. La magia nello sguardo. O una padronanza completa, assoluta. Poco prima delle casse ho trovato un librone, cinquecento pagine, tantissime figure, racconta la storia del fondatore e il susseguirsi dei designer che hanno caratterizzato negli anni l’immagine, il design del colosso svedese. Forse dovrei trovare un amico che non c’è mai stato, che dell’Ikea ha solo sentito parlare, accompagnarlo e concentrarmi sulle sue reazioni, sperando che non venga colto da asfissia, che non avverta il bisogno di fuggire. Oppure dovrei ritirarmi a scegliere, a capire, ora che è diventato urgente, ora che è diventato necessario, cosa intendo raccontare. Se concentrarmi sull’incanto, del tutto mio, personale, come non esistessero milioni di altre persone che ogni giorno mettono piede all’Ikea ciascuno con una propria reazione, ciascuno entusiasta a suo modo o terrorizzato; o se dedicarmi invece al fenomeno più ampio, raccogliendo possibili altre ispirazioni, chiedendo alle mie amiche di spiegarmi cosa succede quando trascinano i loro fidanzati a prendere le misure di una cucina e tornano a casa con un pupazzo gigante a forma di cuore. Ed è molto bello che, seppure scrivere queste poche righe non mi abbia aiutato a risolvere il problema, mi sembri più chiara adesso la direzione, sia più chiaro adesso come lavorare.
Vi auguro buon anno, miei cari, e le cose migliori. A forma di cuore.
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