Il fantasma di Woody Guthrie
Sul palco, tra gli altri, ci sono John Legend, Bon Jovi e Bruce Springsteen. Nuove, giovani e decisamente non più giovani (tra tutti spicca il 93enne Peter Seeger) star della musica americana. C’è da omaggiare il neo presidente Barack Obama, quando mancano poche ore al suo insediamento. Dal “cilindro” viene estratto il brano This land is your land, capolavoro di Woody Guthrie, inno dell’ “altra” America, quella che si è sempre rifiutata di rispecchiarsi nella parole – fin troppo indulgenti – di God bless America di Isach Berlin. Per una canzone a lungo maltrattata – censurata, privata della sua carica eversiva, ridotta a immaginetta – è una sorta di riscatto. Dell’America che tacciava di anti-patriottismo il suo autore, qui, non c’è traccia. A 42 anni dalla morte, il fantasma di Guthrie – figura estremamente complessa e ancora inesplorata del panorama musicale Usa – continua a ossessionare la cultura americana.
Un fascino che ha contagiato intere generazioni. Il giovane Bob Dylan costruisce una delle sue primissime “maschere” sul modello di Guthrie: girovago, senza legami, sempre pronto a saltare sul primo carnival train. Nel 1982 Bruce Springsteen, che non aveva ancora conosciuto i fasti planetari di Born in the Usa, sale su un palco e intona “una delle canzoni più belle che siano mai state scritte”. This land is your land, neanhce a dirlo. Steve Earle dedica a Woody il brano Christmas in Washington. Al canzoniere del folksinger attingono artisti come John Mellecamp o gli irlandesi U2. Ma chi era Woody Guthrie? Quale patrimonio ha consegnato con le sue oltre tremila canzoni composte (e solo in parte registrate) alla cultura a stelle e strisce?
Siamo a New York, nel 1940. Guthrie va a vedere The Grapes of Wrath (Furore nella versione italiana), film che John Ford ha tratto dal romanzo omonimo di John Steinbeck. Né rimane folgorato. Scrive: “Va a vedere Grapes amico, vallo a vedere e non te lo perdere. Sei tu la star di questo film. Va’ a vedere te stesso, a sentire le tue parole e la tua canzone”. Pungolato dal film, compone il brano Tom Joad che rinarra l’intera epopea dei Joad, il loro peregrinare alla mercé delle tempeste di polvere, la tragica esposizione alle chimere della ricchezza da una parte, alla violenza dei vigilantes dall’altra. Come notava Alessandro Portelli nell’unica biografia uscita in Italia sul folksinger, Gutrhie valorizza “quanto di potenzialmente eversivo esisteva nella storia della famiglia Joad”. La ballata è un ottimo modo per accostarsi all’arte del cantante, alla sua capacità di condensare nello spazio a volte minimo di una canzone un’intera storia, con tanto di personaggi, profili psicologici, sviluppo narrativo. Quei volti che dalle pagine di The Grapes rimbalzano nella pellicola di Ford hanno qualcosa di familiare che riconosce subito: appartengono alla sua vita da sempre. Guthrie nasce nel 1912 a Okemah, nello stato dell’Oklahoma. La sua giovinezza è segnata da una serie di tragedie. La casa di famiglia fa a fuoco. Woody perde una sorella, spericolate speculazioni finanziarie del padre lasciano la famiglia sul lastrico. Le certezze su cui riposava un’esigenza agiata si disgregano. Il giovane Guthrie si consegna a una vita vagabonda. Non è il solo: la crisi economica del ’29 si abbatte violenta come un uragano, sradicando intere masse di lavoratori. Di questo “duro vagare” c’è traccia in numerosi brani (da Hard travelin’ a Goin’ down this road feeling bad): è l’eterno anelito al movimento che impregna la cultura american ma spogliato di ogni mitologia. I vagabondi cantati da Guthrie si trovano gettati su una strada, e non per scelta: “Non ho più una casa/ me ne vado in giro/ sono solo un lavoratore stagionale/ vado di città in città/ la polizia mi rende la vita impossibile ovunque io vada/ e non ho più una casa in questo mondo”. (I ain’t got no home in this wordl anymore). Con gli anni la capacità di Guthrie cresce: la sua arte unisce racconto personale e storia corale, fatto e rivendicazione, testimonianza e denuncia. Niente intellettualismi: la mia – dirà – è la voce della gente. “Preferisco avere il suono dei secchi di cenere buttati via la mattina presto, dei tassisti che si scambiano maledizioni, dei portuali che urlano, dei guardiani di bestiame che lanciano grida, e del lupo solitario che ulula”.
Guthrie è un cantastorie, e del cantastorie incarna la vocazione: essere strumento di una memoria condivisa. Canta la vita spezzata dei clandestini messicani che bussano alla porta del benessere, trovandola sbarrata: ” Siamo morti sui vostri colli, siamo morti nei vostri deserti/ siamo morti nelle vostre valli e siamo morti nelle vostre pianure/ siamo morti sotto i vostri alberi, siamo morti nei vostri cespugli/ sulle due rive del fiume siamo morti ugualmente” (Deportee). In una azione che ha sempre mitizzato l’individualismo, disconoscendo l’esistenza di classi sociali, Guthrie narra le lotte operaie (1913 Massacre) e la violenza dei vigilantes (Vigilante man). la sua posizione non ammette sfumature: “Ve lo dico chiaro e tondo a voi fascisti/ la gente si sta organizzando/ e voi siete destinati a perdere” (All you fascist). In una terra che si proclama la patria del sogno, del multiculturalismo e dell’accoglienza, canta la tragedia di Sacco e Vanzetti, condannati alla pena capitale dal loro essere immigrati e anarchici. E in This land attacca quello che è un dogma inscalfibile per gli americani: la proprietà privata: “ E mentre camminavo/ un cartello mi fermò/ c’era scritto proprietà privata/ ma dall’altro alto/ non c’era scritto nulla/ Questo lato è stato creato per me e per te”.
C’è un “altro” Guthrie spesso troppo frettolosamente dimenticato. E il Guthrie che intitola una canzone a Gesù (Jesus Christ) e fa del suo “personale” Messia un’incarnazione della lotta per la giustizia. Gesù – canta Guthrie attingendo ai Vangeli con grande attenzione filologica – “aveva viaggiato in lungo e largo” (Mt 8,20 e Lc 9,58), era un falegname (Mc 6,3), venuto a “portare non la pace ma la spada (Mt 10, 34), il cui insegnamento è “di dare tutto ai poveri” (Mt 19,21 – Mc 10,21 – Lc 18,22). E la convinzione che ispira il brano – i poveri un giorno erediteranno il mondo – trova la sua base scritturale nel Discorso della Montagna.
Il Gesù che ammalia Guthrie è quello profetico. La sua parola è accolta “da tutti i lavoratori” e rigettata dai “banchieri” e dagli “uomini di religione”. Nella sua visione, il male si annida in ogni forma di potere istituzionalizzato. Sono “lo sceriffo” e il “predicatore” – percepiti come i custodi dell’ordine – a inchiodare Cristo alla sua Croce. In Jesus Christ la storia non è il luogo del progresso ma della caduta: “Se Gesù fosse qui a predicare quello che predicava in Galilea/ credo proprio che gli farebbero il funerale”. In un altro brano (Jesus Christ for president) il folksinger arriva a auspicare che Cristo diventi “presidente”, la sua visione è ora messianica: Cristo significa giustizia e la giustizia può accadere solo con il capovolgimento radicale delle logiche di potere che governano il mondo.
Ma per Guthrie Cristo è solo l’emblema del rivoluzionario? Di chi vuole “togliere ai ricchi per dare ai poveri”? O invece, il corpo a corpo con la figura di Cristo apre uno squarcio su una spiritualità più ricca e complessa? Se si insiste solo sul Guthrie “politico”, non si rischia di ignorare una parte importante della sua figura? In realtà sono diversi i brani del folksinger che custodiscono un senso religioso, di commossa contemplazione che si allarga fino ad abbracciare l’intero creato. Brani come Airway to heaven, Heaven e Heaven my home testimoniano come – accanto alla tensione utopica che ha sempre permeato la musica di Woody (“Combatteremo/ e combatteremo fino a vincere” – Peasture of plenty), nella sua opera viva una vena altrettanto ricca, che potremmo definire escatologica. “Chi ha orecchie per sentire ascolti/ chi ha occhi per vedere guardi/ volgete lo sguardo al Signore dei cieli/ saltate su questo volo di linea/ vi riporterà a casa/ nella vostra casa al di là dei cieli” (Airway to heaven). Ritroviamo qui quella prossimità tra casa e paradiso che costituisce uno dei luoghi più frequentati dalla canzone Usa. Una tensione che non oblitera il reale, non cancella la “verità” da cui Woody non si discosterà mai: “il giocatore d’azzardo è ricco/ il lavoratore povero”. Il mondo cantato da Guthrie – nonostante le ingiustizie che lo lacerano – non è disertato da Dio. In God’s promise, l’autore canta la promessa di Dio agli uomini: “Vi ho dato la verità di cui avevate bisogno/ il mio aiuto dall’alto/ la mia amicizia senza fine/ il mio amore infallibile”. Un senso del sacro si irradia anche in This land, laddove si canta di “spiagge spumeggianti e deserti cristallini: E’ tutto intono a me/ una voce risuonava/ questa terra è stata creata per te e per me”.
Il brano nel quale meglio si accordano questi motivi – il senso altissimo della giustizia, la spinta comunitaria e la visione anticipatrice del regno – è This train is bound for glory, un riadattamento dello spiritual This train. Sul “treno che viaggia verso la gloria”, non c’è posto per “giocatori d’azzardo, prostitute o vagabondi”, non c’è spazio per “razzismo e discriminazioni”. Sul “treno diretto verso la gloria” – canta Guthrie – “possono salire solo i santi”. La visione della bellezza non è mai disgiunta dall’imperativo della giustizia.
Leggendo il post, ho pensato a un pezzo dei Led Zeppelin “Stairway to heaven”: la fonte da cui hanno attinto a piene mani è Guthrie (capovolgendo il senso della canzone, inneggiando al diavolo). I riferimenti escatologici nelle sue liriche (un fatto unico e mai imitato da nessuna rockstar) è una felice scoperta e interpretazione di Luca. Illuminante. Tra le cose più interessanti lette negli ultimi mesi. Come sempre… grande Luca!