La febbre della suocera di Outlaw Pete
Chi è dunque Gesù Cristo nella narrazione del Vangelo? Un grande sapiente? Un genio tanto incompreso e invidiato da diventare la vittima innocente di uomini bugiardi e crudeli? Un uomo buono? Un benefattore? Un guaritore talmente generoso e pieno di risorse da portare anche la tachipirina alla suocera di Pietro per abbassarle la febbre? Entrato Gesù nella casa di Pietro, vide la suocera di lui che giaceva a letto con la febbre. Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a servirlo. (Mt 8,14-15). Questo episodio è molto chiaro: Gesù la guarisce e lei piena di riconoscenza si dà da fare. Niente di più lineare e ovvio, ma non mi basta. Se mi fermo al livello morale del racconto, Cristo diventa solo il portavoce di una norma etica di bontà. Certo, potrebbe essere molto gratificante e rassicurante identificarsi in questo modello, ma che barba! Il racconto evangelico sarebbe semplicemente uno spot di Gesù e del suo prodotto: l’amore per il prossimo. Tutto questo mi sembra tremendamente noioso. Ho bisogno di una lettura più emozionante, coinvolgente, capace di proiettarmi dentro al racconto e rendermi protagonista della scena insieme a Cristo. Lo voglio incontrare, sento il bisogno di accendermi e di vivere un’esperienza che mi consenta di scoprire chi è Cristo e chi sono io. Ho bisogno di vivere un rapporto umano che mi faccia prendere fuoco come quando mi innamoro da perdere la testa o mi arrabbio da sfasciare tutto. Non era stato Cristo poi a dire di essere venuto a portare il fuoco sulla terra (Luca 12, 49)? Un fuoco, non un’aspirina. E quanto vorrei che questo fuoco fosse una passione bruciante! Se Lui è questo, se il suo fuoco è questo, allora sì, mi interessa.
Il poeta-romanziere-drammaturgo Giovanni Testori più volte ha affermato che o si diventa amanti appassionati di Cristo oppure niente. Se non c’è questo fuoco, questa passione, tutto il resto sono chiacchiere. In una poesia scriveva: Non è vero. / La croce non si rinnova. / Chi non ha bevuto quel sangue / non potrà berlo mai più. / Chi non è stato Tuo amante / sarà per sempre un passante. L’amante è l’innamorato, colui che appena ti vede ti stringe il cuore fino a strozzarlo in un “gorgo di baci”, per dirla alla Clemente Rebora. L’innamorato è talmente felice che non può contenersi, immediatamente fa qualcosa per farti sentire bene, si mette al tuo servizio capendo subito perfettamente di cosa hai bisogno. Mi piace pensare, allora, che la febbre della suocera di Pietro sia solo il simbolo di tutti i fuochi che non sono quel fuoco, i fuochi che ti impediscono di essere felice e di esprimere quella passione che invece Cristo è venuto a portare sulla terra. Gesù le ha preso la mano e questa donna anziana ha subito capito che suo genero e gli amici erano appena tornati affamati e stanchi da una mattinata impegnativa nella sinagoga di Cafarnao e subito si è messa in azione, mossa dal desiderio di servirli. Immagino che l’abbia fatto per la grande gioia di vederli e non per un obbligo morale nei confronti del grande dottore di Nazareth che l’ha curata a domicilio. Da quel momento la suocera di Pietro, evidentemente una donna umile e semplice, è sistemata. Non la incontriamo più nel racconto evangelico, mentre abbiamo sempre tra i piedi suo genero Pietro che pare bruciare fino all’ultimo di un fuoco che non è certo quello portato da Cristo. Pietro si sente un antagonista dei farisei e della loro Legge, vive con tale passione questa identità di fuorilegge nella banda di Cristo da staccare un orecchio a un servo del sommo sacerdote con un colpo di spada quando i giudei prendono Gesù nell’orto degli ulivi (Giovanni, 18, 10). Pietro aveva una febbre che neppure gli straordinari analgesici di Cristo potevano sanare. Solo nel momento in cui rinnega il suo capo e amico e ne incrocia lo sguardo ovvero quando ha una visione chiara della propria morte, quando vede la fine della sua illusoria identità di fuorilegge, quando cade il velo dietro cui tentava di nascondere la propria fragilità, quando va in frantumi la sua identità di desperado della Galilea, inizia lo sviluppo drammatico della sua storia e si apre la possibilità per lui di ricevere il fuoco portato da Cristo. Fino a quel momento Pietro era un uomo fermo al riparo della sue certezze rivoluzionarie, trincerato sull’altra faccia della medaglia della Legge, pronto a una guerra di posizione con i farisei, animato dal loro stesso fuoco. Non ancora un santo e neppure capo della Chiesa, Cefa è “Pietro il fuorilegge” che pensa di essere il migliore di tutti perché ha la pistola Cristo-spara-miracoli, un uomo sordo e incredulo, in grado solo di far sentire la sua voce (Se anche dovessi morire, non ti rinnegherò). Mi sembra di vederlo sulle colline che sovrastano il mar di Galilea mentre nel suo cuore sfida i farisei urlando “sono Pietro il fuorilegge, mi sentite?”. Fino a quel momento, Simon Pietro è ancora Outlaw Pete.
Outlaw Pete è anche il protagonista della opening track di Working on a dream di Bruce Springsteen, il cow-boy che ruba e uccide gridando a tutto il mondo “sono Pete il fuorilegge, mi sentite?” (I’m Outlaw Pete, can you hear me?). Solo dopo aver sognato la propria morte Pete decide di lasciarsi alle spalle la sua vita di criminale, emigra nell’ovest, sposa una giovane ragazza Navajo, tiene in braccio la figlia neonata, ma è animato dallo stesso fuoco di sempre che gli fa dire “sono Pete il fuorilegge, mi sentite?”. La sua storia cambia solo quando arriva Dan, il cacciatore di taglie con il cuore appesantito e il battito accelerato dal compito di catturare Pete (his earth quickened and burdened by the need to get his man). Dan coglie Pete mentre sta pescando pacificamente nel fiume e, in nome della legge, come il peggiore dei demoni, gli dice due cose terribili. La prima è una cosa vera, ma pesa come una pietra tombale perché contiene un giudizio: “Pete, pensi di essere cambiato e invece non lo sei affatto” (Pete you think you’ve changed but you have not). La seconda è il sigillo del sepolcro in cui Dan vuole rinchiudere l’anima di Pete: “Non si possono disfare le cose che abbiamo fatto” (Whispered in Pete’s ear “We cannot undo these things we’ve done”). Dan vuole inchiodare Outlaw Pete al suo destino di fuorilegge, gli comunica che niente e nessuno potrà mai cambiare il fuoco che lo anima in un altro fuoco, che non c’è redenzione per il male che ha commesso perché è un fuorilegge (e per la Legge lo sarà per sempre). Pete è più svelto di Dan, lo fredda con un coltello e fugge, quaranta notti e quaranta giorni senza mai fermarsi, ma qualcosa è cambiato: non fa più udire la voce del suo io che urla “sono Outlaw Pete, mi sentite?”, è ammutolito e un’altra voce, misteriosa, lo chiama, dicendogli “sei Pietro il fuorilegge, mi senti? Sei Pietro il fuorilegge puoi sentirmi?” (Outlaw Pete, Outlaw Pete, can you hear me? Can you hear me? Can you hear me?). Questa voce interviene quando Pete è giunto al limite della tensione tra i due assoluti, il suo Io e la Legge, tra il suo essere legge a se stesso e la Legge che lo condanna e rifletterà per sempre come uno specchio spietato i suoi misfatti. È una voce insistente, accorata, piena di passione, potrebbe essere quella di un innamorato o di un padre molto affezionato al proprio figlio.
Dopo aver tentato di mettere la testa a posto conservando la propria identità di fuorilegge, dopo che questa è andata in frantumi di fronte all’oscuro portavoce della Legge giunto a chiedergli il conto dei suoi misfatti e alla maledizione che questi gli ha bisbigliato nell’orecchio, Pete sceglie la fuga ad oltranza. Ma la fuga è l’inizio di un nuovo cammino perché ora non è più solo contro il mondo, ora Pete c’è un Altro che lo chiama incessantemente per nome. Mi piace pensare che un giorno si fermerà ad ascoltare la voce che lo chiama dicendo a se stesso le stesse parole del poeta Renzo Barsacchi – Cos’altro potrei fare? /Dire di no? / Dire che non accetto? / La terra forse si ribella alle piaghe apertele dal sisma o l’albero dalla scure? – e di accogliere il fuoco che Cristo ha dato alla suocera di Outlaw Pete, un fuoco che è l’inizio di un nuovo tempo, quello di ascoltare la voce che grida nella propria piaga e di mettersi a servire, un tempo come quello evocato dalla poetessa Elena Bono: Tempo è venuto / di vendere la veste / e comprare la spada. / Tempo di fare in pezzi / il proprio cuore / e darne parte a tutti / senza fine. […] È tempo di ferire / ogni vivo nel cuore / e che ognuno si scavi la sua piaga. / E più la piaga grida / più v’è Dio.
Quando la piaga si apre Pietro incontra lo sguardo di Cristo e piange lacrime amare, quando la piaga brucia Outlaw Pete fugge ma sente una voce misteriosa che lo chiama per nome, quando la piaga è mortale Outlaw-Pietro è come il tossicodipendente marchettaro Riboldi Gino che muore di overdose in un cesso della Stazione Centrale di Milano (Slacciò la cintura. Scesero, nella debil luce, i calzoni. Poi, gli slip. La magrezza, tant’era che non gli fu necessario sforzo alcuno. Quindi, servendosi dell’acqua, si dispose a preparar la miscela. S’udì un urlo. Forse si trattava di una disperata maledizione. L’ago entrò.). Agonizza il protagonista di In Exitu di Giovanni Testori ma viene salvato dalle braccia di Gesù Cristo che si fa presente in una goccia di sperma secco appiccicato a una piastrella del gabinetto (siamo lontanti mille miglia dall’immagine del medico buono che porta l’aspirina alla suocera di Pietro). La febbre di Riboldi Gino è altissima, ma Cristo è lì nel suo grido, per donargli il suo fuoco ed egli non solo ode una voce, ma addirittura può vedere sul gradino, egli, esso, il tremens per visibile et orribil mancanza, sembrommi un Cris. Come vedesi in cert’antiche imago. Et in certe rappresentazion scolpite. […] A un certo grado d’emission dell’acuto grido screpolasi, ecco. Addirittura, staccasi. Crolla. Giù. Giù. Sul bianchissimo lino.
Sì, il fuoco di Cristo è pura passione per l’uomo, ma i farisei o Dan il “bounty hunter” non possono capirlo. Loro conoscono solo la Legge. Come gli spettatori che in occasione della Prima nazionale di In exitu alla Pergola di Firenze, l’8 novembre del 1988, sfilarano davanti al palco per sputare addosso a Giovanni Testori in segno di disprezzo per uno spettacolo che li aveva scandalizzati. Testori che impersonava sulla scena il personaggio dello scrivano (mentre Riboldi Gino era Franco Branciaroli) non si sottrasse a quegli sputi, rimase accanto al suo personaggio e al Cristo che gli teneva la mano per guarirlo dalla febbre.
Leggo sempre molto volentieri le sue meditazioni, padre Gawronski, ci trovo sempre un sacco di citazioni sorprendenti
Amare il fratello (sorella) è un sacrificio gradito a Cristo.
La parola “sacrificio” quanta reticenza porta con sé, quanta incertezza quanta insoddisfazione del bene che facciamo o che avremmo dovuto fare.
Amare il prossimo è l’autocoscienza di un nuovo senso dell’altro.
La reticenza è spesso il non essere persuasi nell’amare in Cristo.
Questa reticenza , comprensibile per la nostra debolezza, diventa, nel tempo il luogo del “no”, nel rapporto con il fratello ( sorella) e così si rivela come un impedimento reale all’amore di Cristo, alla possibilità di fare esperienza di “ Lui”.
Se tu mi porti il messaggio dello Spirito d’ amore- la Sua presenza- nella tua esperienza, se tu me lo porti io lo sperimento; se tu non me lo porti, io non l’esperimento, è un’idea che posso leggere sui libri, è solo una formulazione teorica.
L’ impeto della passione è con coloro attraverso cui mi è arrivato, quell’impeto che ti strappa, ti stacca da quel che sei, ti rende nudo, è l’abbandono dell’Io per amore di un altro.
Quale atteggiamento assumere , quale moralità, quale esistenza per l’uomo e donna nuovi?
Cosa possiamo invocare se non “ Fa’ che il mio cuore sia pieno di ardore nell’amore in Cristo, così che possa piacergli” (Jacopone da Todi, stabat meter, vv28-30) per essere dentro al Suo abbraccio.
Il sacrificio gradito a Dio è l’offerta di ogni mio gesto, perché altrimenti non ha senso nessun gesto, è la dimenticanza di sé tra le braccia dell’uomo grande.
Mi viene da pensare all’aspirina, anzi alla tachipirina che appunto sta a dire, etimologicamente, che si vuole “abbreviare il fuoco”, ridurlo, velocizzare l’uscita del fuoco della febbre. E invece Cristo porta con sè il fuoco (e qui il pensiero va a McCarthy, al finale di Non è un paese per vecchi e a La Strada).
Ho letto il messaggio di Stas ascoltando Outlaw Pete di Springsteen.. continuerò a pensare a questo accostamento Pete-Pietro. Grazie, ciao!
bello e suggestivo l’accostamento tra l’outlaw Pete e Pietro…Stas’ agguanti una lunga tradizione della canzone americana. Woodhy Guthrie costruisce il suo brano Jesus Christ sulla figura del fuorilegge Jesse James. Come il primo diceva “al ricco di dare tutto al povero” così il “secondo rubava ai ricchi per dare ai poveri”. Il primo è tradito da Giuda Iscariota, il secondo da qual “dirty little coward di Robert Ford”. E il Billy the kid cantato da Bob Dylan è braccato dagli uomini “perchè a nessuno piace che sia così libero”. Nel film di Sam Peckinpah Billy the kid prima di essere ucciso stende le braccia come se fosse in croce. E che dire dei forilegge di Johnny Cash? E che dire degli eroi di John Ford? Qui ci verrà in soccorso Andrea……
Gesù Taumaturgo
MARCO 6:2 Gesù aveva bisogno per i suoi miracoli di grande Fede in chi lo ascoltava.
Quando egli entra a Nazaret, suo villaggio natale, l’incredulità dei suoi concittadini è tale che non gli permette di fare miracoli.
Matteo 13
“Da dove ha ricevuto costui questa sapienza e queste potenti operazioni?
55 Non è costui il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Iose, Simone e Giuda?
56 E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove ha egli dunque ricevuto queste cose?”.
57 E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: “Nessun profeta è disprezzato, se non nella sua patria e in casa sua”.
58 Ed egli non fece lì molte opere potenti a causa della loro incredulità.
Corrado Augias in ” Inchiesta su Gesù” afferma:
” a un certo punto della sua vita, egli si rende conto di possedere poteri straordinari, sui quali ha solo un parziale controllo. Si potrebbe dire che Gesù è stato un mistero non solo per gli altri, ma anche per se stesso.E’ altamente probabile che Gesù, nel constatare questo suo potere, si sia interrogato su cosa stesse succedendo in lui, quale fosse la fonte di tali facoltà. Esendo un ebreo religioso poteva attribuire questo potere solo a Dio. La sua effettiva capacità taumaturgica potrebbe essere uno dei fatti che più ci avvicina alla sua esperienza individuale.”