Sofferenza e meraviglia sono sorelle? La risposta di Ahron Appelfeld
Quando alcuni anni fa lessi Bianco su nero di Ruben Gallego (Adelphi), il racconto autobiografico di un orfano quasi completamente paralizzato sopravvissuto agli istituti per minori dell’Unione Sovietica, mi sorprese sopratutto lo sguardo pieno di meraviglia dello scrittore. Questo ragazzo destinato a una rapida morte riusciva ad esprimere sulla propria realtà una parola di stupore e di intima gratitudine, per quanto drammatica fosse la sua vita. I suoi occhi erano in grado di riconoscere la presenza della bellezza e della bontà in microeventi, incontri con persone o cose, che hanno avuto il potere di alimentare in lui il motore più potente e misterioso che un uomo possa avere per andare avanti nella vita: la speranza. D’altronde le cose stanno proprio così, la speranza non è altro che la conseguenza dello sguardo che abbiamo sulla realtà, un frutto della nostra capacità di visione. Ed è un mistero che in persone come Ruben Gallego, sprofondate nell’inferno in terra, questa attitudine al vedere in profondità e ampiezza sia un dono così potente, uomini che sembrano essere stati chiamati a dare una testimonianza diversa (e un po’ straniante) del dolore e del male nel quale è immerso questo mondo. Diversa, appunto, perché piena di speranza, malgrado tutto.
Ho pensato a tutto questo leggendo Storia di una vita di Aharon Appelfeld (Giuntina), uno dei più importanti scrittori israeliani che, durante la seconda guerra mondiale, era un bambino di sette anni in fuga dal campo di concentramento di Kaltschund, costretto a vagare da solo nei boschi o a vivere con dei contadini. Un bambino che, in pochi mesi, ha perduto la sua casa, i genitori, la lingua e, alla fine della guerra, perfino i ricordi della sua terra. Giunto in Palestina insieme a tanti altri ragazzini scampati alla Shoah, è stato costretto a dimenticare il tedesco e lo yiddish a favore dell’ebraico e a sostituire la memoria del passato con un brusco balzo nel futuro attraverso un violento e ideologico radicamento nella nuova società israeliana. La sua è una storia piena di dolore. Eppure ecco come inizia uno dei capitoli di questo splendido libro:
Durante i lunghi anni della guerra ho incontrato persone meravigliose. Purtroppo la fretta era grande ed io ero bambino. Durante la guerra i bambini non contavano, erano paglia calpestata da tutti. Ciononostante ci furono alcune persone straordinarie che, in quel gran tumulto, strinsero al cuore per un momento un bimbo abbandonato, gli diedero una fetta di pane e lo avvolsero in un cappotto.
In viaggio verso l’Ucraina vidi, in una stazione ferroviaria stracolma di gente scacciata una donna che si stringeva al seno un bambino sui quattro anni, abbandonato. La testa del bambino era carica di capelli e la donna sedeva sul pacco e lo pettinava con gesti lenti, come se fossero in un giardino pubblico e non in una stazione, espulsi. Il pallido volto del bambino era pieno di stupore, come se avesse capito che una grazia simile si ottiene una sola volta nella vita.
Il bambino che riconosce lo stupore negli occhi di un altro bambino è il ragazzo che, alcuni anni più tardi, dovrà imparare a parlare e a scrivere in ebraico, una lingua nuova, meccanica, funzionale solo al suo inserimento nel nuovo mondo. Non avere più la possibilità di parlare il tedesco per lui significherà perdere sua madre una seconda volta, veder scomparire la sua immagine. Sarà questo il punto estremo del suo sradicamento da se stesso. Almeno fino al giorno in cui, diversi anni dopo, Appelfeld avrà la possibilità di iscriversi al Dipartimento di Yiddish e di ritrovare in quel luogo il suono e le parole della lingua dei suoi nonni. Lo aiuteranno a ritrovare il sapore della sua terra anche alcuni libri di Agnon che gli insegnerà che la propria città natale si può portare ovunque, e vivervi una vita piena, che la città natale non è questione di geografia statica, puoi allargarne i confini o alzarla fino al cielo.
Un giorno comincerà a scrivere delle storie, ma sarà duramente contestato perché la Shoah, secondo l’ideologia prevalente in quegli anni in Israele, non può essere materia per un racconto, ma solo di testimonianze precise e circostanziate di fatti realmente accaduti. Appelfeld si difenderà dicendo di portare gli anni della guerra nel proprio corpo e non nella memoria, che era solo un bambino disperso, solo, spaventato, affamato e costretto ad un rigoroso silenzio per nascondere la propria identità.
Eppure questo bambino, immerso nella vita come in un fiume di sofferenza, è diventato un uomo capace di stupore, uno scrittore che ci parla di meraviglia all’inferno. E forse tutto questo non è paradossale, forse è vero che il dolore e la meraviglia sono intimamente e misteriosamente legati. E che il disincanto, adottato da tanta letteratura del ‘900 per parlarci della (nostra) vita, è solo la lente oscura di una cultura che ha esaltato l’autonomia dell’individuo fino a sradicarlo dalla realtà, lasciandolo nel vuoto e nell’afasia occultata dagli effetti speciali, dal sentimentalismo o dal facile moralismo della denuncia sociale. E, allora, ben venga un libro discreto e potente come Storia di una vita che lo scrittore Eraldo Affinati paragona alla “bandiera piantata sul picco di una montagna dopo una scalata compiuta con mezzi poveri da un alpinista senza equipaggiamento”. Però, che vista meravigliosa da questa cima!
Sono libri quelli che citi che non ho letto e dalla tua recensione mi affascinano molto. Ti ringrazio per la tua segnalazione. Giulia
Concordo con te quando dici che “il motore più potente e misterioso che un uomo possa avere per andare avanti nella vita: la speranza. D’altronde le cose stanno proprio così, la speranza non è altro che la conseguenza dello sguardo che abbiamo sulla realtà, un frutto della nostra capacità di visione”. e che è fondamentale saper leggere lo stupore. I bambini hanno bisogno di questo. Nella mia vita di insegnante ho cercato di insegnare proprio queso, la speranza e la capacità di stupore. Quando i bambini imparano questo sono disponibili ad aprire la loro mente e il loro cuore. Se non imparano questo incamerano solo nozioni aride e fredde di cui non sanno che farsene nella vita. Per questo rifiutano poi la cultura.
Vi consiglio anche Notte dopo notte di Appelfeld. E’ uno dei pochi libri tra quelli presi in fiera a Torino che non mi ha delusa. Un saluto a tutti!
In questo tempo continuamentee risuonano in me le parole dello sguardo fresco di cui parlava Antonio ormai diverso tempo fa. Michela domenica, al lab di scrittura a Firenze al quale ho partecipato, ci faceva notare le stesse coordinate : se si vuol scrivere di noi, della realtà, del di più che sta dentro la realtà, si deve prima di tutto avere uno sguardo … capace di vedere e di meravigliarsi.
Questa tua lettura e accostamento tra meraviglia e sofferenza, mi fa pensare: sto leggendo Il Dramma dell’Umanesimo Ateo di De Lubac, e nel capitolo su “Dostoevskij profeta” , parlando di una esperienza spirituale che non dipende dalla capacità di introspezione psicologica, né tanto meno da capacità intellettuali, dice: > (pag. 305, ed. Jaca Book) e in nota riporta un pensiero di Edmokimov: “L’idea della croce, l’idea di espiazione è l’atmosfera spirituale dei romanzi di Dost.”
Ora che c’entra con la tua lettura? Purtroppo ho solo letto qua e là Dost. ma mi ricordo nei Demoni, mi sembra, che fa dire a uno dei personaggi: la bellezza salverà il mondo.
Bellezza-sguardo fresco-sguardo meravigliato del bambino.
Mi è venuto da metterli insieme. Ripeto conosco poco Dost. ma se anche in lui ci fosse questa “coppia” Appelfeld avrebbe il Gigante russo sulle cui spalle guardare…
Grazie Stas