Agosto, un po’ di raccoglimento?
Passeggio per il corso del paese di Maratea, amena località della costa lucana sul Tirreno dove villeggio praticamente da sempre, finalmente c’è un po’ di sole, e mentre scendo verso la piazzetta mi rendo conto di una cosa, forse con ingenua meraviglia: la differenza tra il paese e la città è che nel primo la gente si saluta. Nel piccolo paese tutti si conoscono, un fatto che ovviamente ha anche dei tremendi effetti collaterali. Forse a causa delle mie più recenti letture estive (i saggi di Karl Rahner sulla poesia e L’istinto di narrare di Jonathan Gottschall), ma c’è qualcos’altro che attira la mia attenzione: nella piazza del Municipio, intorno alla fontana, una serie di panchine sotto gli alberi sono affollate di paesani, con la coda dell’occhio noto una mattonella inchiodata su una delle panchine: un disegno ritrae un uomo anziano seduto e sopra campeggia la scritta “Assèttati e cùntami ‘u fatto” (dal dialetto locale: “Siediti e raccontami il fatto”). Gli uomini ogni giorno hanno “un fatto” da raccontare. E in effetti sopra e intorno a quella panchina un piccolo gruppo di persone è intenta all’antichissimo sport della conversazione. Non c’è arte più umana di questa, la narrazione. Forse antica quanto la cucina. Attorno al fuoco non si mangia soltanto. Gli uomini sono gli animali narranti. Mi colpisce innanzitutto l’imperativo: siediti, come a dire che raccontare è un’arte, non è qualcosa frutto del caso, ma richiede invece una preparazione, un’attenzione, una disciplina, una ritualità. Innanzitutto ci si deve sedere, cioè ci si deve fermare, stoppare la normale attività frenetica del giorno e staccare, uscire da sé, dall’abitudine, “evadere” e, in qualche modo, “raccogliersi”. Al racconto è funzionale il raccoglimento. Non solo per l’ascoltatore, o per il lettore, ma anche, evidentemente, per il narratore stesso. E’ lui che si deve sedere, deve spezzare il tempo e raccogliersi nello spazio, per poter dare vita ad un vero racconto.
Il verbo greco per “dire” è “lego”, da cui proviene anche il verbo italiano “leggere”, perchè nei secoli passati i libri non si leggevano ma si ascoltavano, non tutti li avevano ma venivano letti in pubblico. Questo vale innanzitutto per i libri religiosi, i libri sacri. All’epoca della tradizione orale tutto era racconto, tutto era detto, pronunciato in pubblico e così goduto, ascoltato, assimilato.
Ma il verbo greco “lego” vuol dire anche “legare” cioè “raccogliere”. E si capisce perchè: il racconto è un modo per cogliere e raccogliere, per connettere e dare unità al molteplice che appare, a prima vista, come l’unica forma del reale. L’uomo che, al tramonto, si siede vicino al fuoco, si raccoglie e racconta i fatti avvenuti nel giorno appena trascorso a chi si mette attorno per ascoltare. E grazie al racconto riesce a cogliere tanti dettagli di quei fatti che mentre li viveva gli scivolavano addosso apparentemente insignificanti, li coglie e li raccoglie, così ritrova un significato, una unità, un ordine, al caos della giornata che si è conclusa. La gente si raccoglie intorno a colui, che dopo essersi raccolto e aver raccolto le idee, dà vita al racconto, qualcosa che dà più vita alla vita stessa (sua e degli ascoltatori). Era così per gli uomini delle caverne, è così ancora oggi sotto gli alberi nella piazza del Municipio di Maratea, dove tutti si salutano, perchè si conoscono, o comunque hanno vissuto insieme questa esperienza di sedersi e raccontare/ascoltare delle storie, raccogliendosi intorno al fuoco, al calore di una parola umana comunicata e condivisa.
Questo che racconti si ritrova ancora nel vissuto e nei comportamenti di tanti persone anziane.Aggiungo che cio’ avveniva anche all’interno delle case , spesso modeste, dove vigeva un calore “familiare” che rimanda a ricordi infantili.Oggi l’avvento delle nuove tecnologie tende a far sparire questo tipo di comunicazione e di “racconto” Anche a Maratea ci sara’ un muretto con ragazzi e tanti smartphone…