Si sta come d’autunno
Il 23 settembre si combatte la battaglia di Salamina, è stipulato il Concordato di Worms, sono fondate la Repubblica di Salò e la Nintendo. Nascono Ottaviano Augusto, Kublai Khan, Alberto Asor Rosa e Ray Charles. Muoiono Beatrice d’Aragona, Vincenzo Bellini, Sigmund Freud e Pablo Neruda.
E, con loro, ogni 23 settembre muore definitivamente un’estate, invero già entrata in agonia con la fine di agosto, per dare luce al nuovo anno lavorativo. Ci si spoglia delle piacevoli e sonnolente abitudini di cui ci eravamo vestiti durante il periodo vacanziero, per indossare giacca o tuta, riempire il contenitore del pranzo la mattina, immettersi nel traffico di clacson e tubi di scappamento, tornare al proprio posto di lavoro, tra tutti i posti propri quello che meno ci appartiene. La fine dell’estate segna una trasformazione umana grandiosa: da placido animale al pascolo, sdraiato sulle riviere dei nostri mari-bandiera-blu o costretto a vagare con cipiglio instupidito sotto la calura delle più svariate località turistiche, l’individuo si riscopre homo faber, artefice e calcolatore.
Ma tutte le inossidabili consuetudini sopra descritte, sempre eguali e tuttavia egualmente differenti per ciascheduno, quest’anno rischiano di incrinarsi. Chi continuerà a lavorare da casa, chi continuerà a non lavorare, chi andrà a lavoro temendo una nuova pausa forzata, chi andrà a lavoro temendo una pausa definitiva. L’homo faber si ritrova di fronte all’inevitabile constatazione che la fortuna sua non sempre dipende dalla propria operosità.
L’autunno, stagione sleale, come ebbe a dire Bufalino, si tinge di una nuova e sconosciuta slealtà, quella dell’incertezza. Sembra quasi paradossale che un periodo destinato, per eccellenza, alla pianificazione e programmazione si scontri con la fragilità di un futuro precario.
Si rischia qui di cadere nel pleonasmo: il futuro è il tempo precario per eccellenza. Per quanti sforzi l’uomo possa approntare, al fine di imbrigliarlo nell’illusione di una prevedibilità, il domani è destinato a sottrarsi al calcolo umano. Eppure, con questa constatazione quasi banale nella sua semplicità l’uomo non riesce a scendere a patti. La visione economica dell’esistenza impone il tentativo di ridurre ogni alea, restringendo il margine proprio dell’imprevisto. Conseguenza scontata è l’attribuzione di una valenza negativa a ogni situazione precaria, instabile e dunque incerta.
Quel “desolato sentimento di precarietà”, che Pirandello eleva quasi a poetica, diviene dunque costante e penosa memoria della condizione umana, sempre in bilico tra successi e avversità. L’imprevisto ci pone davanti ai nostri limiti. Ecco che i termini della questione devono essere spostati: non si tratta di accettazione della precarietà, quanto di accettazione della propria umanità.
Nell’osservare il futuro ci si scopre miopi, alla continua ricerca delle lenti più adatte, che siano la statistica, il calcolo probabilistico, la speculazione logico-filosofica o la lettura delle linee della mano. Finendo per dimenticare che il futuro è anche il tempo della possibilità, costantemente aperto a quei cambiamenti che ci consentono di uscire dai binari predefiniti e stabili.
Il futuro ci permette di essere più bufali e meno locomotive, parafrasando De Gregori, e sostituire all’angoscia propria dell’incertezza la serenità di un (dis)equilibrio sempre in formazione. Forse quest’autunno, così peculiare, mostrerà in fondo la sua natura più propria e autenticamente crepuscolare. Non come stagione da pianificare, ma come tempo teso a ricordarci, a fronte di ogni straripamento dell’ego, la nostra finitudine. Non a caso Kierkegaard preferiva l’autunno alla primavera, perché se in primavera si guarda la terra, “in autunno si guarda il cielo”.
Grazie Valerio
Bellissima riflessione …sull” imprevisto