Che spettacolo!
Approfittando delle festività natalizie sono ritornato al cinema e ho visto due film: The Hobbit e La vita di Pi, entrambi nati dai due romanzi omonimi di grande successo. Ci sono almeno altri due punti di contatto tra questi due film apparentemente diversissimi, uno collegato al contenuto ed uno alla forma. Sul contenuto: la “morale” di entrambe le favole può essere espressa dall’esortazione evangelica estote parati, “siate pronti!” o se vogliamo, dall’affermazione di Amleto: readiness it’s all, la prontezza è tutto.È questa la principale virtù di Bilbo Baggins, lo hobbit protagonista della lunga favola scritta da J.R.R. Tolkien nel 1937 e ora diventata una trilogia cinematografica per opera di Peter Jackson. Bilbo è un tipo tranquillo e sedentario eppure c’è una scintilla (“il lato Tuc” del suo sangue) che lo spinge a muoversi, a reagire al tedio della vita con una risposta pronta alla domanda che gli viene rivolta dal mago Gandalf: “sto cercando qualcuno con cui condividere un’avventura“. L’esistenza come avventura, come qualcosa che “sta per venire” e alla quale si deve rispondere con il “sì”, l’adesione convinta che innerva tutta la propria vita.
Anche la vita di Pi è un’avventura, mirabolante ed “estrema”, alla quale ci si deve preparare. Nel momento più drammatico, il giovane indiano Pi che a causa di un naufragio perde tutta la famiglia e si trova sbattuto nell’oceano pacifico su di una scialuppa con a bordo i più strani e inquietanti compagni di viaggio (una zebra, un orango tango, una iena e una tigre famelica), chinerà il capo e dirà a Dio: “sono pronto”. È un lungo dialogo con Dio, la storia di Pi, in cui l’elemento religioso è esplicito dall’inizio alla fine della vicenda narrata (così come, al contrario, ne Lo Hobbit, la dimensione spirituale c’è ma è tutta sottotraccia), un’invocazione affinché Dio si manifesti nella vita di un cucciolo d’uomo gettato nella condizione più radicale ed “elementare” che si possa immaginare. Vedendo questo bel film di Ang Lee vengono in mente i versi che Borges dedica al mare:
Il Mare
Prima che il sogno (o la paura) ordisse
mitologie e cosmogonie,
prima che il tempo si coniasse in giorni,
il mare, il sempre mare, era e da sempre.
Ma chi è il mare? Chi è quell’impetuoso e antico
essere che rode i pilastri della terra
è uno e molti mari, ed è abisso e splendore e caso e vento?
Chi lo guarda lo vede per la prima volta, sempre.
Con lo stupore che le cose elementari lasciano, i pomeriggi
belli, la luna, il fuoco di un falò.
Chi è il mare? chi sono?
Lo saprò l’ulteriore giorno
che viene dopo l’agonia.
L’avventura sul mare è occasione di crescita per il giovane protagonista. La maggior parte della storia è occupata dalla difficile convivenza nella stessa piccola imbarcazione dell’uomo con la tigre: il “siate pronti!” si può declinare meglio nel “siate vigilanti!“. I due nemici, Pi e la tigre, saranno costretti a collaborare e l’aiuto che il felino darà al ragazzo è proprio quello dell’esercizio della vigilanza, virtù che significherà la vittoria sul caos violento della natura e quindi la sopravvivenza. Il “problema” rappresentato dalla tigre verrà trasformato da Pi in risorsa, prova e occasione di crescita, la sua apertura (la prontezza) a ricevere tutto quello che la vita dona ogni giorno ad ogni uomo, segna religiosamente questa storia, potente metafora dell’esistenza umana.
Dal punto di vista della forma i due film offrono allo spettatore tutto il meglio dell’attuale potenza tecnologica applicata alla cinematografia. Dal punto di vista visivo i due film sono impressionanti e si rimane sbalorditi dalla vividezza dei colori (nel caso de Lo Hobbit anche per la tecnica dei 48 fotogrammi al secondo), per la potenza delle immagini e la “profondità” realizzata grazie al sistema del 3D. Mi sono molto divertito durante la visione di questi due film che mi hanno quasi “stordito” per l’accumulo di effetti speciali, il ritmo (ne Lo Hobbit) e la raffinatezza della computer-grafica che ad un regista competente e dotato di grandi potenzialità economiche permette di realizzare ormai “qualsiasi cosa”. Lo “spettacolo” è stato talmente potente da annullare quasi tutto il resto, anche la lettura degli aspetti contenutistici che pur ho rilevato nella prima parte di queste mie riflessioni a caldo; la magia del cinema intesa proprio come “lanterna magica” è talmente pervasiva che alla fine si avverte quasi un senso di frustrazione e svuotamento.. come se mancasse qualcosa, forse paradossalmente, proprio quando il cinema arriva al suo massimo livello di piena realizzazione delle sue potenzialità, proprio allora rivela il suo limite, indicando che manca ancora qualcosa, che il cinema è quella cosa che nasce allorquando lo spettacolo cinematografico raggiunge il suo compimento.
Mi sa che non ho capito bene l’ultima frase. Cioè si dà eccessiva importanza alla forma e quindi il contenuto (sebbene ci sia) rimane in un angolo?
la potenza della tecnologia applicata alla cinematografia rischia di far scadere il risultato nel virtuosismo, anche contro la volontà del regista e contro la reale presenza di una vera storia da raccontare (come nel caso dei due film qui presi in esame). Personalmente mi trovo impreparato di fronte alla perfezione delle immagini che è tale da stordire e rendere quasi superflua l’esistenza di una storia da raccontare. Tale perfezione puramente tecnica delle immagini non costituisce nè sostituisce la vera sostanza del cinema che è sempre racconto (per immagini). Spero di essere stato più chiaro, ma il punto non è chiaro nemmeno a me.
In effetti propria l’ultima frase mi pare descriva bene quello che, per me, è l’unico limite del film tratto da “Lo Hobbit”. Visto in 3D e nelle rare sale che permettono la visione a 48 fps è puro spettacolo, ma… visto in 2D ci si rende conto che alcune sequenze che nulla aggiungono alla storia sono state inserite per uno sfoggio di tecnica che, tuttavia, la maggior parte degli spettatori non avrà occasione di assaporare.
provo a interpretare— tutto ciò che è saturo, che non lascia uno spazio di immaginazione allo spettatore, è destinato a non lasciare traccia nello spettatore stesso…
provo la stessa sensazione con alcuni libri che sminuazzano all’ossessione i protagonisti, facando vivere bei momenti al lettore ma negandogli una esperienza nel senoso autentico del termine (Mi è capitato con “Troppo forte, incredibilmente vicino” di Foer. Qui la coscienza del protagonista è riprodotta in modo talmante preciso e dettagliato da risultare impossibile… finto). Il segreto è nella parola “mistero” che è connaturato a ogni uomo, luugo, stroie e che va protetto.
sono d’accordo con Maurizio su quello che dice sul mistero, anche se l’accoppiata “luugo, stroie” resta un mistero..