[Report] Officina di marzo 2025

Il tema di ciò che si perde si inserisce perfettamente nel solco di quella ricerca dell’invisibile che caratterizza l’anno di BombaCarta. Le “cose smarrite” nel tempo e nello spazio, d’altronde, appartengono alla sfera di ciò che esiste in un altrove, sottratto alla vista del soggetto. Eppure, proprio nel soggetto, trovano una loro eco, una risonanza, un’impronta, una differente rappresentazione di ciò che furono, sono o saranno. Durante l’Officina abbiamo cercato di indagare il rapporto tra chi perde qualcosa e la cosa smarrita, declinando al contempo “quel che si perde” nelle diversificate possibili categorie e significati che ognuno può esperire nel corso della propria esistenza.

Mariavittoria

Questa è una delle prime immagini dell’opera di Max Klinger che si chiama “Un guanto“. Tutta l’opera sembra attraversare le dimensioni reali ed oniriche partendo da una cosa semplice ed innocua come la perdita di un guanto.

Nel linguaggio quotidiano, il verbo perdere si accosta ad una moltitudine di parole e con i più svariati significati letterali o figurati, come “Ho perso l’aereo!” oppure “Ho perso la testa!”.

Nella canzone Michel, Claudio Lolli rievoca i ricordi d’infanzia con il suo amico francese Michel.

Ti ricordi, Michel dei nostri pantaloni corti
Delle tue gambe lunghe, magre e forti e della rabbia
Che mi davano correndo tutti i giorni un po’ più svelte delle mie

Ti ricordi, Michel dei nostri soldatini morti
Nella difesa eroica dei bastioni
E seppelliti in una siepe con onori militari inventati lì per lì

Ti ricordi, Michel del banco nero in terza fila
Che ascoltò tutte le risate
Di due bambini che vivevano in un sogno che non si ripeterà

Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?
Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?

Ti ricordi, Michel che a me piaceva Garibaldi?
Ma tu dicevi che era un buffone
E che senz’altro non poteva sostenere il confronto con il tuo Napoleone

Ti ricordi, Michel di come ti prendevo in giro?
Per l’erre moscia che ti era rimasta
Solo ricordo della Francia e della tua prima casa
Dei tuoi amici di lassù

Ti ricordi, Michel di come era esclusiva la tenerezza che ci univa
E accompagnò la nostra infanzia fino ai giorni della nuova realtà

Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?
Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?

Ti ricordi, Michel di come a me dispiaceva
Quando parlavi sempre di ragazze?
E delle voglie che avevi con due occhi un po’ sottili che non conoscevo più

Ti ricordi, Michel di quando i mei capelli corti, ti davano fastidio e dicevi
Se non la piantavo di fare il bambino tu con me non ci saresti uscito più
Ti ricordi, Michel il giorno che facemmo a pugni tornando a casa dalla scuola
Con la cartella appogiata a una colonna a due passi dal paltò

Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?
Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?

Ti ricordi, Michel il giorno che morì tua madre?
E tu piangevi tanto che anche il cane che ti voleva così bene
Non aveva il coraggio di avvicinarsi un po’

Ti ricordi, Michel che tristi erano quei giorni?
Io non sapevo proprio cosa dirti e che confusione avevo in testa
E che stupore sul tuo viso e che voglia di partir

Ti ricordi, Michel quei due saluti alla stazione e i lacrimoni venir giù
Quando la macchina incomincia a far pressione tu dovesti salir su
Ti ricordi, Michel che fretta che avevano tutti difar partire la vettura
Mentre lento il tuo vagone se ne andava, ritornava la paura

Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?
Ti ricordi, Michel? Ti ricordi, Michel?

Nelle parole di Lolli a perdersi sono gli amici francesi di Michel quando si è trasferito in Italia, sono le giornate passate a giocare che traghettano i bambini all’età adulta, è la madre e la tristezza che porta la sua morte, è lo stesso autore che entra in confusione quando l’amico se ne va.

Perdere un amico, spesso, è perdere anche un punto di riferimento che ha contribuito alla nostra formazione, è parte integrante di quello che siamo diventati.

Cosa succede se quello che perdiamo è ciò che ci ha sempre definito?

Il film è Still Alice del 2014, regia di Richard Glatzer e Wash Westmoreland. Alice Howland è una rinomata professoressa di linguistica presso la Columbia University che ad un certo punto comincia a perdere la memoria. Le viene diagnosticata un sindrome di Alzheimer precoce e questa notizia la catapulta in un mondo nuovo e buio soprattutto quando, oltre alle persone, ai luoghi, ai gesti, comincia a perdere le parole, il cardine di tutta la sua carriera, della sua vita.

Alice si trova così alla ricerca di un nuovo mondo in cui ridefinire i propri limiti, ristabilire un equilibrio che sa essere ogni volta transitorio.

Che forse non è questo il mio mestiere?

Perdere tempo, questo è il mio mestiere,

e il bello è perdere quelche non si ha.

Ho perso tempo e certo non l’avevo

ma io perdendo prendo, anzi ricevo,

lusso supremo, la mia immortalità.

Altro non voglio infatti che essere immortale

qui in questa terra essere immortale, sospesa

in mezzo al tempo non più mio, esposta

e già finita, chiuso animale che certo

non risorge, giocando alle parole sono l’inizio.

Anche per una poeta come Patrizia Cavalli, le parole sono molto importanti e le lega in maniera indissolubile al tempo. Nella canzone di Ermal Meta, Il tempo della vita, la frase “Io non ho perso tempo, ho preso vento per gonfiare le mie vele, navigare in mari sconosciuti, io non ho perso tempo a volte ho perso me per poi ritrovarmi e ripartire“, dice che la “perdita di tempo” di base non esista perché il tempo si trasforma sempre in qualcosa, sia esso tangibile o meno, immediato o a lungo termine. La poesia sopracitata, tratta dalla raccolta Pigre divinità e pigra sorte del 2006, parla di come l’artista usi quel “perdere tempo” per scrivere, per far nascere nuove poesie, che la tolgono dal tempo mortale regalandole l’eternità nella letteratura.

Per finire, la paura per una possibile perdita può trasformarsi in una ossessione. Il fotografo Seiichi Furuya nel suo lavoro Perdita e memoria di Christine riprende per anni scene di vita quotidiana della moglie Christine. Quest’ultima soffriva di depressione e i continui scatti di lei diventano una forma ultima e ossessiva per rimanere aggrappato alla realtà mentre la malattia gli sta portando via l’amata. Le ultime foto scattate nel 1985 ritraggono le scarpe vicino alla finestra della loro abitazione al nono piano di un palazzo nella Berlino Est dal quale Christine si suicidò.

Greta

C’è una storiella, raccontata da Paul Watzlawick nel libro Istruzioni per rendersi infelici, che parla di un ubriaco sotto un lampione. Ne parlammo in un BombaMag e fa così:

Quando perdiamo qualcosa, abbiamo subito la tentazione di cercarla lì dove possiamo vedere, nell’area familiare che già conosciamo. E tuttavia ciò che cerchiamo sta proprio lì dove è buio e dove spesso ci fa paura andare.

Per questo quando poi perdiamo qualcosa – magari un’occasione, o addirittura l’occasione della vita – invece di ammettere di aver avuto paura accusiamo il caso di essere stato crudele con noi e di averci giocato un brutto scherzo. La Before Trilogy di Richard Linklater ruota proprio intorno a una vita persa, anche se sfiorata, a causa di un appuntamento mancato. Nel secondo film della serie, la protagonista si rende conto di aver perso molto di sé insieme a quell’appuntamento.

Ma cosa ci dà il senso della perdita? E perché la perdita è così dolorosa? Secondo Emily Dickinson la risposta sta nel ricordo dei tempi felici.

Potessi dimenticare quanto ero felice
Ricordare quanto sono triste
Sarebbe una avversità sopportabile
Ma la memoria del fiore

Continua a rendere il novembre arduo
Finché io che ero quasi ardita
Perdo la strada come una bimba
E muoio di freddo.

Le cose buone della vita e quelle cattive sembrano strettamente intrecciate le une alle altre. Si influenzano e dentro di noi si mischiano fino a diventare un tutt’uno. Ma forse si può provare a pensarle in un altro modo, così che la perdita possa essere vissuta senza angoscia, solo con la giusta tristezza. In questo modo Amy Pond (dalla serie tv Doctor Who) riesce ad accettare la morte di un caro amico.

Valerio

Riprendendo il solco tracciato dall’editoriale, sono stati individuati differenti approcci alle cose perdute: l’amara nostalgia dei Baustelle nella canzone Le rane, la disperazione di Moretti in Palombella rossa, la rimozione del ricordo all’inizio di Hook-Capitano Uncino, ma anche poi la riscoperta di quei ricordi felici che possono indurre al volo, nel finale del medesimo film.

Eppure la perdita non si deve sempre e solo declinare al passato, ma anche al futuro. Un caso simile è quello del protagonista de La 25° ora, di Spike Lee, che mentre sta per essere condotto in carcere sogna una vita diversa, altrimenti possibile ma, al contempo, irrimediabilmente preclusa.

Anche il futuro si può dunque smarrire, perdendosi nei bivi che la vita ci pone davanti. Un altro sogno di futuro è quello che compie Alex, nel finale di Un’arancia a orologeria, di Anthony Burgess:

Camminando per le strade buie in quel freddo inverno bastardo dopo aver pistonato fuori da questo sosto per il cià e caffè, continuavo a locchiare delle specie di visioni, tipo queste vignette nella gazzetta. C’era il Vostro Umile Narratore Alex che tornava a casa dal lavoro e si metteva davanti a una buona cenetta calda, e c’era questa quaglia tutta sorrisi di benvenuto e saluti tipo amorosi. Ma lei non la vedevo affatto cinebrivido, fratelli, e non sapevo chi potesse essere. Ma ebbi l’idea improvvisa che se andavo nella stanza accanto a questa stanza dove c’era il caminetto e dove c’era il tavolo con la mia cena calda, avrei trovato quello che veramente volevo, e ora tutto si collegava, quella foto ritagliata della gazzetta e questo incontro con Pete. Perché nell’altra stanza c’era una culla con un bambino che gorgogliava gu gu gu. Sì sì sì, fratelli, era mio figlio. E ora sentivo questo gran tamagno vuoto dentro le macerie, ed ero molto sorpreso. Sapevo quello che mi accadeva. Io stavo tipo maturando.

Sì sì sì, proprio così. La giovinezza deve andarsene, oh sì.

Dove fallisce la cura Lodovico, interviene per Alex il fluire della vita: il tempo della maturità lo sottrae così alla spirale di violenza che lo ha accompagnato lungo tutto il romanzo e lo restituisce, ormai mutato, al lettore. Alex non manca il proprio appuntamento con la vita, al contrario di quello che avviene per il protagonista di Storia di una pausa pranzo, cortometraggio di Marco Del Mastro. Vittorio, impegnato nella costruzione di una palazzina, si ferma a mangiare un panino con la salsiccia, ma ad ogni morso ritarda il piacere di addentarla. Nel frattempo riceve una telefonata: Daniele ce l’ha fatta, ha superato il colloquio e ora andrà via a inseguire la sua grande occasione. Vittorio attacca il telefono, è contento per Daniele. Ritorna al suo panino, sposta ancora la salsiccia prima di addentarla, però involontariamente la lascia cadere di sotto, nel vuoto, e osserva il suo pranzo volare via insieme a un’esistenza dove forse non ha osato abbastanza.

Ma il tempo delle occasioni, la grande ora della vita, è anche uno dei temi cardine della poetica di Dino Buzzati, qui nel finale di Un amore, brano con cui si è chiusa l’Officina:

Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno. Attraverso la stratificazione di caligini il riverbero rossastro dei lampioni ancora accesi la illuminava dolcemente facendola risplendere con pietà e mistero. È la sua ora, senza che lei lo sappia è venuta per Laide la grande ora della vita e domani sarà forse tutto come prima e ricomincerà la cattiveria e la vergogna, ma intanto lei per un attimo sta al di sopra di tutti, è la cosa più bella, preziosa e importante della terra. Ma la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno, neppure lui alzerà gli occhi a guardarla.

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