Quello che si perde

Ci pensi ogni tanto alle rane?, domanda Francesco Bianconi al suo amico di infanzia in un testo intriso di nostalgia sulla giovinezza perduta e il tempo che ci sfugge, pur conservando i propri segni. Nella canzone Le rane dei Baustelle, la prospettiva assunta è quella di chi ha abbandonato da tempo la provincia, presumibilmente per trasferirsi in città, e parla al suo compagno di giochi, ormai lasciato indietro insieme alle fantasie che animavano le loro giornate estive.
Ogni esistenza ha le proprie rane, simbolo di una spensieratezza ormai trascorsa, gioco su cui si indugiava da ragazzi, perduto insieme alle speranze e all’innocenza (“ti sei sistemato? che prezzo hai pagato?”). Le rane rappresentano i nostri ricordi felici, quelli che, una volta recuperati dall’antro polveroso della memoria, consentono a Robin Williams/Peter Pan di tornare a volare in Hook di Spielberg. Ma anche quelli che possono farci cadere nella disperazione, come ricorda il grido doloroso di Moretti in Palombella rossa:
Ho 35 anni, non torneranno più. Le merendine di quand’ero bambino, i pomeriggi di maggio, non torneranno più. Le merendine [corre] di quand’ero bambino non torneranno più! Le merendine di quand’ero bambino non torneranno più! I pomeriggi di maggio! Le merendine con pane e cioccolata. Mamma! Mia madre! Mia madre, non tornerà più! Il brodo di pollo, quand’ero malato, gli ultimi giorni di scuola, prima delle vacanze…
Se le rane perdute di Bianconi vengono vissute con nostalgia e le merendine di Moretti portano allo sconforto, i ricordi felici di Peter Pan invece conducono a riappropriarsi di quei voli che solo l’infanzia consente. Questa differenza di approccio certamente dipende da cosa si è perduto e da come si intende la natura del nostro rapporto relazionale con la cosa smarrita. In tale prospettiva rifulge infatti l’insegnamento di Epitteto, che ci invita a non pensare alle cose in termini di perdita, quanto di restituzione. Non si può piangere per aver smarrito qualcosa che non è mai stato realmente nostro.
Tuttavia la differente reazione di fronte alla perdita non è solo rivelatrice del legame con la cosa smarrita, quanto piuttosto dell’indole dell’individuo, del modo in cui egli riesce a pensare al proprio passato e, forse ancora più importante, a vivere il proprio presente. Le cose perdute e il legame che abbiamo con esse, infatti, sembrano parlarci più nel e del presente che del passato. L’insoddisfazione di Bianconi e il grido di Moretti non sono da ricercarsi nella radice di quei ricordi, quanto nel tradimento che di quei ricordi si è compiuto nel cammino che ha portato all’oggi (“io nel frattempo me ne sono andato, se vuoi ti ho tradito, che effetto ti fa, la piscina di un agriturismo ha coperto le rane”).
Le cose perdute e il modo con cui ci approcciamo ad esse diventano quindi uno specchio di come stiamo abitando il presente, ma anche nel presente possiamo perdere qualcosa. È un’esperienza comune: abbiamo necessità di un oggetto, di un qualche documento, una chiave, un attrezzo, un libro… eravamo sicuri di averlo riposto proprio lì dove è sempre stato, eppure quell’oggetto, documento, chiave, attrezzo, libro che sia non si trova, non riusciamo a rintracciarlo nel luogo che ritenevamo fosse deputato alla sua custodia, non lo troviamo in luoghi dove ragionevolmente potremmo averlo riposto in alternativa, lo cerchiamo allora nei luoghi più impensati, infine, ci arrendiamo. L’oggetto di cui avevamo bisogno è perduto!
Canta Vinicio Capossela, nel suo Il paradiso dei calzini:
Dove vanno a finire i calzini
Quando perdono i loro vicini?
Dove vanno a finire beati?
I perduti con quelli spaiati
Quelli a righe mischiati con quelli a pois
Dove vanno nessuno lo sa.
Per Capossela lo spaiamento dei calzini diventa metafora del perduto amore (“Dov’è andato a finire il tuo amore? Quando si è perso lontano dal mio”), non in termini di perdita nel tempo, ma di perdita geografica, come se parlasse di qualcosa che è ancora, ma collocato in un altrove.
Quando si parla di quello che si è perduto non ci si riferisce a qualcosa di inesistente, ma a ciò che esiste semplicemente in un’altra dimensione, temporale o spaziale. Le rane di Bianconi sono perdute nel passato – esistono cioè in un altro tempo – mentre i calzini di Capossela sono perduti nell’oggi – esistono cioè in un altro spazio. La perdita diventa così semplicemente un problema di collocazione: qualcosa che si trova fuori posto, traslato rispetto alla nostra vista capace di abbracciare solo il qui e ora.
Ma, al contempo, le cose perdute nell’altrove conservano una dimensione attuale che è quella propria del ricordo. In virtù dell’immagine che di quelle cose conserviamo nella nostra mente, abbiamo il potere di riportarle in vita, regalando loro una doppia realtà: quella dell’altrove e quella del qui e ora della nostra esistenza. Solo smarrendone anche il ricordo quelle cose possono dirsi definitivamente perdute, e noi con esse.
È quel che avviene nel caso di Bastiano, il protagonista de La storia infinita di Michael Ende, che per ogni desiderio espresso rinuncia a un ricordo. A poco a poco, con le memorie, scompare una parte di lui, della propria individualità, fino a dimenticare anche il proprio nome e a perdere, con esso, il senno. Dovrà scavare a lungo nella miniera dei ricordi per ritrovare, con la memoria, sé stesso e poter infine fare ritorno a casa, dove racconterà le proprie peripezie al padre.
Solo passando attraverso il racconto Bastiano, così come Odisseo presso l’isola dei Feaci, può finalmente riappropriarsi di ciò che aveva smarrito e tornare alla casa e a se stesso. Quel che aveva perduto ha infine ritrovato la propria collocazione originaria. Egli è salvo.