L’arte della scrittura

A cura di Marianna Barilari

Il Wen Fu di Lu Ji è la prima grande dissertazione in cinese antico sull’arte della scrittura, composta in quella che, potrebbe essere meglio definita come poesia in prosa. Se l’inventore della forma fu non è certo Lu Ji, fu comunque lui ad utilizzarla in maniera assolutamente innovativa. In precedenza il fu era stato una forma popolare impiegata quasi esclusivamente nei poemi discorsivi a carattere storico o di elogio nei confronti di capi politici e militari.

Il primo testo cinese dedicato all’uso della lingua è il Da Xue (o Grande Apprendimento) di Kong Zi (Confucio). Il maestro Kong Zi era convinto che tutta la saggezza risiedesse nell’imparare a chiamare le cose con il loro giusto nome e che solo attraverso la “rettificazione dei nomi” fosse possibile progredire verso un’esistenza illuminata. Intuizione doppiamente rimarchevole, se pensiamo che Kong Zi viveva in una nazione più avanzata del pianeta, con una lingua ricca di locuzioni emblematiche, di eufemismi, doppi sensi e ambiguità stratificate carche di polivalenze.
Il Da Xue è uno dei “classici in pietra” scolpiti intorno al 175 d.C., verso la fine della dinastia Han, nella città capitale di Luoyang.
Nato come parte integrante del Li Ji (Memorie dei riti), divenne “libro” a sé stante solo settecento anni dopo che Lu Ji lo approfondì nei suoi studi sul confucianesimo, nel tardo secolo.

Lao Zi (un saggio) e Zhuang Zi (filosofo) amavano entrambi sottolineare la fallacia della convinzione che “il linguaggio sia il luogo in cui l’essere dimora”, tutti i poeti e letterati cinesi venivano infatti eruditi in materia di classici confuciani e taoisti, e qualunque bravo poeta si impegnava per eccellere nella precisione di linguaggio confuciana pur sapendo che Lao Zi aveva speso migliaia di caratteri nel tentativo di spiegare perché la lingua non è in grado di articolare l’essenza del Dao.

Nella personalità del maestro Lu sono pienamente integrate emozione e ragione, la cultura stessa di Lu Ji non operava distinzioni tra poesie e ragioni, né la mente letteraria classica cinese distingueva tra razionale e irrazionale con la chiarezza che oggi ci piace invece pensare di possedere.
La metodologia di Kong Zi affondava le radici in ciò che noi occidentali potremmo assimilare alla tradizione socratica di dialogo tra un maestro e diversi interlocutori, e proprio in questo stile dialogante Lu Ji imposta il suo poema in rima dedicato all’arte e all’uso delle lettere.
Egli risponde alle domande prima ancora che queste vengano poste; i suoi versi sono quelli della filosofia e dell’estetica, irregolari per lunghezza e ritmo -e rimati -e per questo detti fu, o prosa in rima.

Il fu di Lu Ji è quello del pian wen o stile a doppia briglia; il poema si regge su una sorta di parallelismo, procedendo spesso contemporaneamente in due direzioni distinte grazie all’uso deliberato dell’ambiguità: “le cose diventano ombre e svaniscono; il ricordo ritorna in un’eco”. Moniti e incitamenti prendono corpo all’interno di immagini concrete, e non di rado il poeta dà per scontato che la familiarità del lettore con la musica e/o i classici della letteratura cinesi sia profonda e pari alla sua. In poche parole scrive per un pubblico colto e letterato.

La parola wen è tra le più antiche della lingua cinese e risale a tremila anni fa, all’epoca degli oracoli e dei primi sciamani, quando già significava arte, comprendendo sia la letterature sia le arti plastico-figurative. Ma wen si riferisce anche alla scrittura o letteratura in quanto mezzo di espressione più naturale dello xin (mente/cuore) che risiede nel nucleo della coscienza.

Wen era inoltre il termine più comunemente usato per indicare la “cultura” in senso lato. La civiltà nasce dunque con la scrittura.
Attraverso la poesia il poeta persegue la trasformazione personale e sociale. L’arte poetica di chi abbia compreso che nessun grande dono può essere realmente offerto o ricevuto in condizione di vuoto emozionale o intellettuale diventa un dono sia per l’autore, sia dell’autore tutto ciò è presente nel poema di Lu Ji dedicato al divenire e al maturare del vero scrittore.

Il suo obiettivo era rivitalizzare la radice etica e spirituale dei grandi scrittori, ricollegarsi a coloro i quali, prima di lui, l’arte della scrittura non era mai stata impresa facile né egoistica, articolare la vita interiore del poeta e della tradizione e comprendere ciò che tutto questo significa nel contesto di un’esistenza piena condotta all’insegna del qui ed ora.

Primo impulso
Il poeta sta al centro
di un universo,
contempla l’enigma

e trae nutrimento
dai capolavori del passato.

Osservando lo scorrere delle quattro stagioni,
sospiriamo;

scorgendo il legame intimo tra le cose,
conosciamo
le innumerevoli vie del mondo.

Piangiamo le foglie strappate
dalle crudeli mani dell’autunno;

celebriamo ogni tenero
germoglio di primavera.

Il gelo autunnale
fa rabbrividire il cuore;
le nuvole estive fanno esultare lo spirito.
Imparare a recitare i classici;
cantare nella chiara virtù
degli antichi maestri.

Esplorare i tesori classici
dove nascono forma e contenuto.
Così mosso, accanto i miei libri,
e prendo in mano il pennello
per comporre questo poema.

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  1. Davide ha detto:

    La poesia è davvero uno splendore. Comunica il momento del ‘satori’, quando si raggiunge l’illuminazione nascosta in azioni che esprimono verità.

    Sono sincera-mente affascinato da una recensione come questa perché incontra non solo il mio ambito di interesse e il mio gusto, ma anche perché il libro di Lu Ji evidentemente descrive un fatto profondo: la scrittura è costituita di segni, e questi segni riportano ad uno stato semantico preciso, nell’imparare a chiamare le cose con il loro giusto nome e che solo attraverso la “rettificazione dei nomi” fosse possibile progredire verso un’esistenza illuminata.

    Non conoscevo questo libro. Ora posso dirmi felicemente arricchito dall’esperienza di chi l’ha letto.

    Grazie Marianna

  2. blu ha detto:

    Anche per me “pagine nuove”… l’oriente ci porta sempre affascinanti piroghe di giunco… stavolta quello che per noi sono solo i loro geroglifici (o segni) per noi appaiono più incisivi. Idonei ad essere percepiti… bello.. lo cercherò dal Feltrino!
    Grazie Marianna

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