Un esistere oltre noi stessi
Cosa succede quando si riduce la dimensione dell’esperienza a quella dell’esperimento? Ci si mette al sicuro, in primo luogo. Al riparo dalle perdite, dalle contaminazioni, dai rischi, dalle cadute, dalle ferite e dalla casualità che invece contraddistinguono la vita vera, agita, rispetto ad una vita immaginata o vissuta a distanza di sicurezza. A prima vista può sembrare che con questa mossa si possa vincere tutto senza perdere nulla, e invece il prezzo che si paga può essere più consistente del rischio che si voleva evitare. Nel saggio Elogio dell’amore. Intervista con Nicolas Truong, il filosofo Alain Badiou sostiene che il concetto di amore attualmente in vigore nella nostra società sia contraddistinto da una connotazione securitaria: come l’idea della “guerra a morte zero” dei conflitti della nostra epoca, così l’amore è oggi pensato e proposto come un esperimento più che come esperienza, come un evento cioè reversibile, privo di rischi, calcolabile, ripetibile e seriale, in cui tutto è, proprio come in un laboratorio, perfettamente sotto controllo. Prova ne sarebbero gli slogan di alcune agenzie pubblicitarie per siti di incontri che promettono “l’amore senza l’innamoramento”, o “l’amore privo di rischi” ovvero senza quella caduta che la lingua inglese conserva perfettamente nell’espressione “to fall in love”.
Ciò che accomuna tanto l’amore securitario con l’idea della guerra a rischio zero è secondo Badiou la concezione per la quale viene eliminata la componente dell’esperienza, la quale è caratterizzata invece da un rischio intrinseco. Ciò che la visione securitaria dell’amore cerca di dimostrare è che il rischio che il soggetto corre nell’esperienza (in questo esempio dell’amore) sia inutile, anziché essere il rischio stesso l’elemento attraverso cui l’esperienza in quanto tale si dà.
Se l’amore è una caduta, in primis al di là di noi stessi, che infligge una ferita al nostro solipsismo e ci costringe ad un’apertura all’altro, e in quanto tale dunque è uno scossone violento e dirompente per la nostra singolarità; è però anche in questa lacerazione, in questo donarsi alla contingenza della vita e dell’altro, che l’Io ritrova un senso di sé e del mondo più profondo e più ampio rispetto al mero vissuto monadico-individuale.
Nel romanzo di Emily Brontë Cime tempestose, Catherine esprime così il suo sentimento per Heathcliff:
Sicuramente tu e tutti noi abbiamo l’idea che ci sia, o che dovrebbe esserci, un nostro esistere al di là di noi stessi. Che senso avrebbe avuto crearmi se fossi contenuta interamente in me? Le mie sofferenze peggiori a questo mondo sono state le sofferenze di Heathcliff e le ho sentite e patite tutte, una dopo l’altra, fin dall’inizio; se vivo, è per lui. Se tutto il resto scomparisse e restasse solo lui, continuerei a esistere; ma, se tutto il resto restasse e lui svanisse, l’Universo diventerebbe per me una potenza estranea, di cui non sentirei di far parte. […] Nelly, io sono Heatcliff, lui è sempre nella mia mente; non come un piacere, così come neanche io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere.
L’amore provato da Catherine è innanzitutto esperito come una perdita dei confini del proprio Io: ella perde, nell’amore, il senso di sé come autoriferimento per approdare ad un senso di sé che ha un riferimento invece nell’altro, in questo caso nell’altro amato. Attraverso questa dinamica di perdita e di ferita alla propria individualità, Catherine riesce non solo a trovare sé nell’altro, ma acquisisce anche un nuovo e diverso sguardo sul mondo, uno sguardo a partire dal due, anzichè dall’uno. L’esperienza amorosa permette cioè, per dirla ancora con Badiou:
un’esperienza unica sul mondo sulla base della differenza e non soltanto dell’identità. Un’esperienza personale dell’universalità possibile.
Ma cosa significa pensare l’amore come un’esperienza personale di una universalità possibile? La dinamica amorosa ci mostra come il processo di realizzazione dell’Io sia una dinamica tra un perdere e un ritrovare, mostra il nesso indissolubile tra una ferita ad un Io autofondato e la possibilità di costruzione di un Noi. Questa dinamica, lungi dall’essere prerogativa esclusiva dell’esperienza amorosa, è alla radice della possibilità di formazione stessa della nostra soggettività e del rapporto tra individuo e comunità.
Secondo Hegel, filosofo che fa dell’esperienza della perdita e del ritrovare il leitmotiv della sua filosofia, la formazione stessa della soggettività avviene attraverso una dinamica complessa che si gioca tra la consapevolezza del nesso tra indipendenza e dipendenza che abbiamo rispetto agli altri, tra perdita del riferimento a sé e conquista del riferimento a sé attraverso l’altro. Nella Fenomenologia dello Spirito l’autocoscienza, per divenire reale, comprende che deve superare l’autoriferimento, “l’immota tautologia dell’Io = Io” per rivolgersi ad un’altra autocoscienza, dalla quale soltanto può scaturire il riconoscimento di sé come autocoscienza vera e reale.
L’Io cioè non può prodursi da solo, non può costitutivamente essere bastevole a se stesso. Così l’autonomia, l’indipendenza e l’autoriferimento si dileguano come illusioni. L’Io riesce a essere reale quando, per dirla con Kojève:
l’io passa dal desiderio di qualcosa al desiderio del desiderio dell’altro.
Ed è in questa dimensione di smarrimento di se stessa che l’autocoscienza si ritrova in un’essenza diversa, nella quale riconosce se stessa solo attraverso il riconoscimento dell’altro:
ciascuna delle due autocoscienze è per l’altra una cosa vivente e per sé un’auto-certezza assoluta; e ciascuna delle due può trovare la sua verità soltanto facendosi riconoscere dall’altra così com’è per sé, manifestandosi nel fuori così come è dentro.
La dialettica dell’Io come alterità porta Hegel a porre nel cuore stesso della soggettività l’esperienza di lacerazione della propria autoreferenzialità ed indipendenza, dischiudendo così la possibilità di arrivare ad una dimensione che ci permetta di realizzare “un Io che è un Noi ed un Noi che è un Io”.
Questa dinamica, lungi dall’essere una irenica visione dei rapporti tra soggetti, in cui l’antagonismo scompare e si assicura la relazione e la differenza, è in realtà una storia di fallimenti, di battute di arresto, di cadute e di scontri: il servo e il signore infatti, figure idealtipiche della Fenomenologia hegeliana, mostrano il fallimento del riconoscimento; e l’amore provato da Catherine si rivela essere una forza distruttrice e mortifera, piuttosto che conciliante e pacifica.
D’altronde, è proprio questo che caratterizza la maturazione di un’esperienza: solo confrontandosi con situazioni “non a rischio zero” si può accedere ad una dimensione di reale formazione ed apertura rispetto ai propri limiti e barriere.
Lasciamo le brughiere inglesi di Cime tempestose e il panorama filosofico tedesco per immergerci nella realtà ateniese del V secolo, in cui questo “esistere oltre noi stessi” di cui abbiamo parlato è al centro della costruzione della collettività: nel famoso Epitaffio di Pericle, quello che doveva essere un discorso di commemorazione funebre in onore dei soldati caduti nella difesa della pòlis contro i Persiani, diviene invece un vero e proprio elogio di Atene e del suo progetto politico più innovativo: la democrazia. La democrazia ateniese non viene elogiata però in quanto mera architettonica politica, ma come quel progetto collettivo che in quanto tale riesce a dare un significato inedito alla morte:
Non abbiamo bisogno di alcun Omero che canti la nostra gloria […] con la nostra audacia abbiamo costretto il mare e la terra interi ad aprirci le loro vie, e ovunque abbiamo innalzato alle nostre imprese, siano state esse sfortunate o coronate da successo, monumenti che non periranno. Ed è per una tale città che questi uomini hanno affrontato amabilmente la morte in combattimento.
Non più dunque l’aedo che canta le sorti dell’eroe, singolo e solitario, donandogli così l’immortalità, ma il progetto politico collettivo garantisce l’esistere oltre la propria individualità, inaugurando un pericoloso gioco di equilibrio di valorizzazione tra l’esistenza individuale e quella collettiva che sarà caratteristico delle costruzioni politiche antiche e non.
Al culmine del suo discorso Pericle, invita l’uditorio, composto quindi da coloro che hanno perso qualcuno durante le guerre persiane, ad amare, non però i loro cari, ma ciò che dei loro cari sopravvive: la città.
Quel che occorre fare è considerare nella realtà, giorno dopo giorno, la potenza della nostra città, e innamorarsene.
PER UNA “SCIENZA NUOVA” DELL’AMORE E DELLA POLITICA…
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI PERICLE (“Non abbiamo bisogno di alcun Omero che canti la nostra gloria”), E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL “PROGETTO POLITICO” DI ATENE, forse, è opportuno riconsiderare il valore delle riflessioni di Umberto Eco su “Pericle il populista” (del 2012): “Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle?” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP//forum.php3?id_article=3554&id_forum=702397) e al contempo, volendo, ripensare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione “Omero” e sulla “Scienza Nuova” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5634). O no?
Federico La Sala