Due è duemila volte uno
Incontro dopo incontro, le Officine di quest’anno fanno emergere in modo preciso quanto la matematica, i numeri, insomma i concetti che siamo soliti definire astratti siano davvero strumenti utili per portarci al cuore dei diversi argomenti.
Dalla follia alla tempesta fino a “scivolare” verso il tema “naturale” della conseguenza più illogica che ci sia: l’amore. Banale più che naturale, si potrebbe pensare. E ce lo concediamo, nella misura (matematica) in cui guardiamo a questo sentimento, a questo senso, a questa sensazione, a questo aspetto ineludibile dell’esistenza umana.
Ci sia permesso dire che, come la matematica e senza offesa alcuna, l’amore è impalpabile. Ma anche inarrestabile, incommensurabile, imponderabile, imprevedibile. Impossibile, forse.
Indefinibile? Chi lo sa? Ovviamente no. Ma ovviamente sì.
Nel film “A beautiful mind” John Nash (guarda caso, un matematico) si dichiara – in modo piuttosto goffo – alla donna che ama:
L’amore assume qui le sembianze di quel teorema che non si può provare, di quel due più due uguale cinque o anche duemila come ebbe a dire G.K. Chesterton: “Non ci sono parole per esprimere l’abisso che corre fra l’essere soli e l’avere un alleato. Si può concedere ai matematici che quattro è due volte due; ma due non è due volte uno: due è duemila volte uno”.
Una strana “definizione” dell’amore, probabilmente una forzatura. Eppure l’amore, come superamento di ogni logica (matematica), è solitudine ed è al contempo quell’uno che si moltiplica a specchio e ci permette la relazione. Ovvero la ricerca o il reperimento di un “alleato” per dirla con Chesterton.
Nella relazione (sia essa amorosa o no) è presente il concetto della dualità fin dal prefisso (ri) che presuppone uno scambio, un volgersi a, un andare o tornare verso. Una ricerca di altro da noi. Relazione viene da re-fero o, per essere più precisi, da re-latus. Referre significa riportare, riferire e dunque relazionarsi con qualcuno implica la necessità di mettersi in relazione, di stringere un rapporto, un contatto. Significa maneggiare la dualità, toccarla, soffermarsi sull’unicità come unicum e, dunque, scegliere l’altro che sta al nostro fianco o di fronte: un alleato, un amico, un amante, un compagno, un nemico.
Una scelta in cui risiedono l’ascolto e la fiducia, quei collanti che rendono saldo il rapporto non solo amoroso.
Rimaniamo ancora con Gilbert Keith Chesterton, da L’Uomo che fu Giovedì: “Il vero modo per amare qualsiasi cosa consiste nel renderci conto che la potremmo perdere. È l’odio che unisce gli esseri umani, mentre l’amore è sempre individuale”.
Una posizione estrema, paradossale come è nello stile dello scrittore inglese: non si possiede l’amore né l’oggetto del nostro amore. La certezza della perdita, della caducità ci permette di guardare all’amore con verità. Ma soprattutto l’amore è unico, nel senso che è unicamente nostro, espressione profonda del nostro essere individui, ossia non divisibili. L’odio, invece, esalta il nostro tratto di adesione agli altri, che è come dire che è più semplice odiare che amare. Anzi, sono due sentimenti che ci appartengono e che si alternano nella nostra vita.
Come scrisse Catullo nell’incipit del suo celeberrimo carme 85:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.“Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile;
non so, ma è proprio così e mi tormento”
L’amore è incoerenza, follia, ma anche tempesta: una forza dilagante e irrazionale, che porta a galla le nostre contraddizioni e diventa passione nel senso esatto del termine, quel verbo patior che è sofferenza e, dunque, tormento, pena, struggimento.
E come spesso ci è capitato di dire a BC, la passione – erotica, ma pure ispiratrice, ideatrice – ci porta davanti al confine che divide la manìa distruttiva, che nasce dal mancato controllo delle passioni stesse, da quella creatrice di più alte esperienze. Una forma di “entusiasmo”, e lo dice bene la radice della parola, che ha in sé una cifra divina e ci conduce a nuovi orizzonti di conoscenza (pensiamo alla descrizione di Platone nel famosissimo passo del Fedro).
Sul tema della relazione, del due e dell’uno che si completa nell’altro uno, insomma anche dell’amore un ‘intervista al poeta francese Christian Bobin rilasciata ad Avvenire qualche anno fa ci aiuta a ricapitolare: […] Quello che potrei dirle della solitudine, potrei dirlo anche dell’amore e di molte altre cose. Sono tutti aspetti contigui che interagiscono: è difficile isolarne uno. Sono tutti atomi legati, come quelli che compongono l’aria che respiriamo… D’altronde tutte queste sono realtà “respiranti”: aiutano a respirare, offrono la più ampia respirazione possibile. L’amore, la solitudine, la scrittura, il canto, il gioco: mi piace, per esempio, fare girare come trottole sulla pagina queste realtà perché sento che nella mia stessa vita girano l’una sull’altra, l’una nell’altra. […]
Amore come realtà respirante che aiuta ad aumentare la respirazione.
Non si può non pensare a Carver e ai suoi versi di Abbi cura, al suo fiato affannato che chiama, amorevolmente, il nome della moglie:
Dalla finestra la vedo chinarsi sulle rose
reggendole vicino al fiore per non
pungersi le dita. Con l’altra mano taglia, si ferma e
poi taglia ancora, più sola al mondo
di quanto mi sia mai reso conto. Non alzerà
lo sguardo, non subito. È sola
con le rose e con qualcosa che riesco solo a pensare, ma non
a dire. So bene come si chiamano quei cespugli
regalatici per le nostre recenti nozze: Ama, Onora e Abbi Cura…
è quest’ultima rosa che lei all’improvviso mi porge, dopo
essere entrata in casa tra uno sguardo e l’altro. Affondo
il naso in essa, ne aspiro la dolcezza, la lascio indugiare-profumo
di promessa, di tesoro. Le reggo il polso per avvicinarla ancora,
i suoi occhi verdi come muschio di fiume. E poi la chiamo, contro
quel che avverrà: moglie, finché posso, finché il mio fiato, un petalo
affannato dietro l’altro, riesce ancora a raggiungerla.
Amore dunque che, a differenza dei problemi di matematica, non ha mai una soluzione unica o esatta, né la cerca.
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