Tu quoque, fili mi (il ragù, come lo prepara mia madre)
Tre giorni in Calabria per ricaricare le pile logorate dallo stress quotidiano della capitale. A tavola cotolette e fagiolini conditi con un sughetto di pomodori pachino. Non è la cena delle grandi occasioni, piuttosto un classico da lunedì sera che noi comunque adoriamo. Papà sorride dicendo che mamma ha preparato le cotolette per me e intanto la fetta più grande scompare. Il segreto credo sia nell’impanatura, a me ad esempio le cotolette escono sempre un po’ più dure, un po’ meno saporite. Quando ti allontani da casa, speri inconsciamente che la tua compagna distingua almeno la padella dalla bistecchiera. Migliorerà poi. Col tempo, con un po’ di consigli, tanta pazienza. T’illudi che quell’impanatura non rimanga soltanto il ricordo sbiadito di una primavera lontana. Che bisogno c’è di sperimentare, di essere creativi, se sai che la perfezione (condire, amalgamare, asciugare) già esiste, che basterebbe prendere appunti (sbucciare, bollire, lessare) e seguire meticolosamente (con attenzione) ogni passaggio (servire a tavola, accompagnare, versare). Accettare che un’altra lasagna, con l’uovo sodo e la besciamella a cui non sei abituato, possa essere, se non altrettanto, diciamo diversamente buona, è un dramma per niente semplice da affrontare; prendere confidenza con le scorze di limone nell’impasto di macinato delle polpette, intingere nel caffè i savoiardi al posto dei pavesini. L’ostracismo che mostriamo di fronte a ciascuno di questi cambiamenti è in fondo la prova evidente di quanto sia radicato il bisogno di difendere la propria identità, il senso di una tradizione. Cosa cuciniamo, come lo cuciniamo, la consistenza che ci aspettiamo sollevando un pezzo di crostata, l’eterno dilemma della pastafrolla fatta col burro o con l’olio, racconta senza incertezza alcuna chi siamo, da dove veniamo. Se siamo d’accordo su questo, il cuoco allora è quella persona che mette in scena una tradizione, un cantastorie influenzato dalla propria terra e non solo, un musicista in grado di muoversi su note diverse a seconda dell’umore, della stagione, del legame che ha con i suoi commensali. Si può cucinare per professione o per mettere da parte la provvista invernale, si può cucinare di fronte a una telecamera e un pubblico pronto a giudicare. O cucinare semplicemente perché si ha fame. Se dovete scegliere se fidarvi di un cuoco, provate a comprendere le sue motivazioni. Ciò che ad esempio muove mia madre tra i fornelli la domenica mattina è l’idea di vedere a ora di pranzo la famiglia riunita. Tutti seduti a tavola mentre si fanno le prime porzioni. Con queste premesse è un po’ anche colpa sua se ho dei problemi con la cintura dei pantaloni.
gustosissimo! e dolce : )
leggo oggi su Civiltà Cattolica: “L’educatore,
secondo Alves, è una persona appassionata dell’arte di insegnare. E’
colui che ha come unica preoccupazione quella di interagire con il
destinatario della sua parola, cioè l’alunno. E’ colui che insegna il
“sapere” con la massima cura, con il “sapore”: è simile a un cuoco che
prepara il pasto, con delicatezza per ogni condimento, preoccupandosi
che il sapore sia gradito dai commensali.
Per l’educatore, secondo Rubem Alves, la preoccupazione principale non
deve essere il contenuto, ma l’alunno, con la sua storia personale di
vita e le sue curiosità. In questa maniera l’alunno non è visto come un
mero recettore e ripetitore di contenuti, ma come un compagno
nell’avventura della conoscenza”. (dal numero 3956 di La Civiltà
Cattolica, articolo su Rubem Alves, di B.Fraguelli)