Illuminare

Perfino così tardi avviene: / l’amore che arriva, la luce che viene. / Ti svegli e le candele si sono accese forse da sé, / le stelle accorrono, i sogni entrano a fiotti nel cuscino / sprigionano caldi bouquet d’aria. / Perfino così tardi gli ossi del corpo splendono / E la polvere del domani s’incendia in respiro. (Mark Strand, La luce che viene).

Le candele, forse, si sono accese da sole, le stelle accorrono, i sogni entrano nel cuscino… che cosa sta accadendo? L’amore arriva, la luce viene! Anche se tardi, ecco che l’avvento è annunciato. Anzi: è vissuto. Non c’è nulla da fare, da progettare, da studiare. Persino le candele si accendono da sole per festeggiare l’arrivo. I sogni non sono frutto della nostra mente ma entrano a fiotti dall’esterno, e su di essi la testa si poggia per riposarsi. Ma qui si parla di quel momento del risveglio che è prezioso perché fa rinascere noi al mondo e il mondo per noi nel momento in cui la fatica del corpo è abbandonata. Ecco che la polvere in quel momento si illumina, anzi si incendia: non è più cenere o scarto, ma quella stessa polvere che prende fuoco e illuminata si trasforma, come al momento della creazione, in respiro.

In queste buie stanze dove passo / giornate soffocanti, io brancolo / in cerca di finestre. – Una se ne aprisse, / a mia consolazione –. Ma non ci sono finestre / o sarò io che non le so trovare. / Meglio così, forse. Può darsi / che la luce mi porti altro tormento. / E poi chissà quante mai cose nuove ci rivelerebbero. (Costantinos Kavafis, da Settantacinque poesie).

Il perimetro della nostra vita non è chiuso in se stesso. Ha finestre, come i muri di una casa. La casa è tale perché dentro ci si sta bene: ci si vive bene perché è uno spazio addomesticato. Ma uno spazio non potrebbe essere «addomesticabile», familiare, se non avesse finestre, aperture verso l’esterno. Solo una casa con finestre, per quanto piccole, può essere davvero una casa. D’estate dobbiamo aprirle: il caldo, insopportabile, ci fa capire una grande verità: se restiamo chiusi in noi stessi soffochiamo. Quale terrore non trovare finestre nel caldo d’agosto. È l’immagine di un incubo. E l’uomo, a volte, sembra poterlo accettare questo incubo. Ma chi lo potrebbe? Chi, come in questa poesia di Kavafis, teme che la luce possa portare altro tormento. Allora il buio caldo di una stanza chiusa e cieca sembra preferibile alla finestra che potrebbe portare una illuminazione, cioè una rivelazione. Sì, è un incubo assurdo, inumano. Allora siamo umani quando, come il poeta nei primi versi, proviamo l’istinto dell’aria, l’istinto della luce. In quel brancolare in una ricerca affannosa c’è una verità profonda sul mio destino.

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  1. Paola Padula ha detto:

    Antonio, questo è uno dei tuoi editoriali più “illuminati”, più vivi, più ispirati, e quindi più trascinanti e generosi. E contiene una perla di conforto straordinaria, una perla rivelatrice e spiazzante: “I sogni non sono frutto della nostra mente ma entrano a fiotti dall’esterno, e su di essi la testa si poggia per riposarsi”. Che meraviglia, ricordare che la bellezza dei nostri pensieri e desideri più profondi non è solo in noi, ma fuori di noi. La bellezza delle cose in cui crediamo e che sognamo, è anche nel mondo. Ed arriva, perchè c’è, c’è già, c’è sempre, in una totale coincidenza tra noi e le cose accanto, intorno, lontano. Ed allora, la perla rivelatrice è proprio questa: apriamo le finestre alla vita che accade, perchè sogneremo meraviglie e magie. Ci si accanisce tanto nell’aspettarsi ciò che crediamo di volere, facendo diventare questa dimensione delicatissima solo un esercizio della mente, chiuso chiuso, triste triste, senza respiro, senza scambio. Ma davvero è così autentica e reale, quell’aspettativa? Ci relazioniamo veramente con noi stessi e col mondo, quando sognamo? E senza relazione profonda e aperta con l’universo, spesso corriamo il rischio di pretendere e non di sognare. Il sogno arriva vivendo di meraviglia il rapporto con le cose, che illuminano il sentire di bellezza nuova, di esperienza: E di voglia, ogni volta, di ri-capirsi, e di ricominciare.

  2. Maurizio Cotrona ha detto:

    la foto è dello Spadaro medesimo, immagino

  3. Paolo Pegoraro ha detto:

    Mi colpisce l’immagine iniziale della luce che si mostra in ritardo, anche perché la stessa luce fisica che ci raggiunge è “in ritardo” rispetto alla sua fonte di emissione. La luce è il massimo dinamismo, niente è più veloce della luce, eppure sembra arrivare sempre in ritardo.

    Mi chiedo se l’illuminazione non sia possibile se non soltanto quando è “così tardi”. Tardi? Cosa decide quando è presto e quando è tardi, se non il sorgere e il calare della luce stessa? Forse “tardi” è la manifestazione esplicita dell’attesa della persona, il suo desiderio cresciuto al punto da gridare: “Vieni, prima che sia troppo tardi!”

  4. Emanuela Scicchitano ha detto:

    «Avevo appena fulminato la lampadina. Quella del bagno. Era la seconda che partiva. Poco prima ne aveva fulminata una Rosaria. […] Dal mio studio ho sentito il clic dell’interruttore e poi ho visto la luce che andava a intermittenza». È l’incipit de “La manutenzione degli affetti”, il racconto che dà il titolo alla silloge di racconti di Antonio Pascale (Einaudi, 2006), in cui la «luce che va ad intermittenza» si offre al lettore come l’involucro testuale e iconico in cui l’autore racchiude i dubbi affettivi dei due personaggi, che assistono alla lenta implosione del loro rapporto per mancanza della luce naturale, che dovrebbe da loro singolarmente scaturire, e della “manutenzione” di quella artificiale, che dovrebbe invece provenire dalla reciprocità della loro relazione. Come se vivere da monadi senza finestre, come Leibniz ipotizzava, fosse sintomo di una autarchia spirituale che conduce all’implosione di sé. Allo stesso modo Pascale mette in scena nel racconto “La controra” la possibilità di una esplosione di sé, causata da quell’eccesso di luce che sfianca i pomeriggi meridionali e chi abita dentro quelle ore assolate e invase dai demoni meridiani, che solleticano i pensieri e alterano gli equilibri. Come se vivere con le finestre sempre aperte fosse sintomo di una mancata intimità con sé stessi, che conduce all’impossibilità di essere veritieri anche nel rapporto con gli altri. Sono forse necessari quei chiaroscuri, che possano illuminare l’essere con gli altri senza nascondere l’essere con sé stessi.

  5. antonio de lorenzo ha detto:

    Prima della luce c’era il LOGOS.Prima del LOGOS c’era….il LOGOS.Non potremmo esprimere la luce e le meraviglie dei suoi colori se non avessimo la parola.La quale è la finestra,attraverso cui intuiamo il LOGOS,veniamo sfiorati ed accarezzati dalla luce del LOGOS; a questa finestra ci affacciamo per vedere i pennelli del LOGOS al lavoro.La luce della Parola è la relazione che ci svela l’essere.Il LOGOS è parola di luce.

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