La città degli uomini
«Ciao, caro Raldo, sono tuo studenti Hafiz, nato Kabul, 1987, afganista, una paeizi numeroze lunga storia…». Comincia così questo splendido libro di Eraldo Affinati che non si sa bene come classificare. Un romanzo? Certo, una storia c’è. Eppure dietro ogni riga, dietro ogni singola parola, si avverte la corposità dell’esperienza. Un racconto autobiografico? Certo, eppure è molto di più: si direbbe che Affinati abbia convogliato anni d’insegnamento nell’alambicco della scrittura per distillarne queste pagine, forti e infuocate come la migliore acquavite. Pagine che ubriacano di lucida passione per la realtà, perché è amore guadagnato con fatica: desiderato, voluto, combattuto e solo alla fine conquistato.
La città dei ragazzi ne racconta tante, di storie. Ci sono Shafa e Fazil, saliti su un aereo dal Corno d’Africa, c’è Petrit che è scappato da Valona, Sardar che è stato in un carcere turco, Peppino che la legge ha allontanato dalla madre, Costantin di sedici anni, intelligenza superiore e ambizioni smodate; e poi Zoltan, Mihai, Karim, Andrej, Khuda… Hanno per genitori la miseria e la disperata voglia di farcela. Sono adolescenti arrivati in Italia attraverso percorsi incredibili, quasi sempre da soli, cuccioli d’uomo smarriti sulle strade del mondo, analfabeti dell’italiano e delle loro lingue ma con tanto da raccontare, se solo qualcuno glielo insegnasse… Ed è questo che fa Affinati, incontrandoli ogni giorno nella Città dei Ragazzi, un complesso di comunità che si estende fuori Roma: da loro parole e responsabilità, dignità e conoscenza. Li aiuta a crescere come dovrebbero fare i padri che ora non sono con loro. Poi, quando qualche ragazzo è pronto e ha ancora una casa che lo attende, Affinati lo riaccompagna: così conosce il Marocco di Omar e Faris, incontra le loro famiglie e legge negli occhi dei suoi ragazzi l’estraneità a casa propria.
D’improvviso, un nuovo volto appare nella classe e si mischia agli altri. È quello di Fortunato, un tredicenne cresciuto da solo tra le borgate romane. È il padre di Affinati, così avaro nell’elargire ricordi del proprio sofferto passato. Così La città dei ragazzi si trasforma in una resa dei conti con la storia personale, e il “lavoro” dell’educatore riagguanta padri e maestri nel corpo a corpo con l’esistenza. E la scrittura diventa scalpello e benda curativa, tramite di un’energia umana contagiosa e potente.
[articolo comparso su Famiglia cristiana 09/2008]
Ah, dimenticavo! Nel romanzo compare pure… il Convegno di BombaCarta! Il riferimento è inequivocabile. A pagina 132, infatti, il padre di Eraldo si rivolge così a suo figlio:
«Ti ho sentito, ieri, al convegno di Reggio Calabria, quando hai detto che ogni uomo deve rispondere, innanzitutto, al padre e alla madre, sciogliendo i nodi che loro hanno tenuto legati. In particolare dovrebbe farlo uno scrittore, hai aggiunto. Chi ti ascoltava è rimasto colpito da questa affermazione. Ma lo sarebbe stato ancora di più se tu gli avessi detto che nell’hotel Miramare di quella città tua madre seppe di essere incinta di te, nel maggio del 1955, quando io e lei eravamo ancora giovani e l’Italia assomigliava a una portaerei sul Mar Mediterraneo».
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