Liale? A chi?
Tutto inizia da un affondo del critico Giuseppe Bonura sulle pagine culturali di Avvenire di domenica 2 aprile.
“C’è un filone neoromantico e banale nella letteratura italiana – sostiene in soldoni – coccolato dagli editori, blandito e incoraggiato da critici proni e compiacenti. Si tratta di “criptoliale”, scrittori che evitano di affrontare il male, scrivono una prosa giornalistica e ammiccante preoccupandosi solo di compiacere il pubblico”. E via lancia in resta…
Passi il tono definitivo, apodittico, virulento che certo poco si addice all’analisi di un fenomeno culturale, tanto più in un periodo come questo in cui la scienza della letteratura ha fatto giustamente strame della separazione dei generi letterari e di approcci critici inclini a collocare prodotti culturali in serie di differente eccellenza…
Passi questo, facendo finta di non sapere cosa realmente accade al livello importante del fare studi linguistici, sociologici, narratologici ecc…
Ma vedere il nome di Sandro Veronesi compreso nell’elenco delle Liale contemporanee (tra le quali per informazione figurano Baricco, Mazzantini, Moccia e DeCarlo – pantheon quantomeno eterogeneo e così letterariamente variegato da risultare di difficile inclusione omogenea in una qualsivoglia categoria) ha immediatamente generato una mia risposta che potete leggere su Avvenire di oggi nelle pagine di Agorà assieme a una controrisposta di Giuseppe Bonura che per completezza di informazione ma profondamente dissentendone riportiamo. Eccole allora entrambe. Fatevi un’idea, poi torneremo a parlarne presto, anzi prestissimo.
C’è più di un motivo per cui Sandro Veronesi va escluso dall’elenco delle moderne criptoliale, – redatto da Giueppe Bonura sul numero di domenica 2 aprile e che comprende tra gli altri Mazzantini, De Carlo, Moccia – e le ragioni diventano criticamente stringenti soffermandosi sui molti elementi riusciti di Caos Calmo, il suo ultimo eccellente libro.
Anzitutto perché è un romanzo di formazione solido nell’impianto, bilanciato nella scrittura e nella distribuzione degli elementi narrativi e con un finale a sorpresa che capovolgendone la costruzione concettuale lascia nel contempo inalterata tutta la sincerità umana della storia: c’è un protagonista, Pietro, rimasto vedovo, che si accampa in automobile davanti alla scuola della figlia accettando di accompagnarla con discrezione nell’esperienza di un dolore che però non arriva così come ce lo si aspetta. Quello che invece accade è che il consolabile diventa consolatore raccogliendo e condividendo dolori, nevrosi, inadeguatezze dei tanti che vanno a trovarlo colpiti da quella scelta di vita. Memoria del singolo e storie altrui si alternano alla perfezione tra rari momenti grotteschi e frequenti tratti di tenerezza estranei all’attuale voga letteraria, alta o bassa, rosa o nera che sia.
Il rovesciamento dei ruoli avviene poi in maniera credibile, non come un teorema ma con le cadenze impercettibili e inappellabili della vita vera, cosicché la formazione del singolo avviene proprio attraverso questo attirare storie, questo divenire cartina di tornasole dell’autenticità dell’umano che trova un inaspettato terreno di coltura nei dialoghi che avvengono in quella macchina come tra parentesi.
Straordinari poi alcuni “camei”: su tutti il bimbo down convinto che il beep dell’antifurto segretamente attivato al suo passaggio da Pietro sia un magico viatico alla sua giornata; poi i riti di addormentamento tra padre e figlia; i momenti di inattesa complicità tra sconosciuti. Ma si diceva del ribaltamento finale: sì, perché la bambina dalla quale il padre ogni giorno si attende un saluto dalla finestra come fosse un angelus benedicente, gli dimostra che la sua corazza di attesa è dolcissima ma inutile e che la vita vera per lei comincia ad andare diversamente. C’è in questo punto della storia l’epifania di una sensazione che ogni padre attende da un figlio temendone segretamente il manifestarsi: quel momento, cioè, in cui “si dimostra costretto a capire tante cose da solo”, “a viverle sulla sua pelle, e questo è soffrire”. Perchè è a quel punto che padre e figlio si scoprono – assieme -creature nude, esposte solo col loro amore alla prova dell’esistere.
Non è poco stare insieme di fronte all’esistenza tenendo per mano questa forza inerme. Se solo ci avesse regalato questo condividere nel profondo la genitorialità, tanto più alla luce degli orribili fatti di cronaca che ci assediano, dovremmo essere grati a Veronesi tutta la vita.
Caro Simonelli, come lei sa, la letteratura non è una scienza esatta. E tanto meno la critica letteraria, è esperienza, cultura, gusto, istinto. E soprattutto etica, nel senso che il vero critico va a cercare nell’opera la sincerità e coerenza stilistica, che viene assai prima del contenuto. Ebbene, la sua recensione di Caos calmo è legittima, figuriamoci. Ma temo che abbiamo letto due opere differenti. O meglio, le abbiamo lette con opposte sensibilità.
Non starò qui a ripetere quello che ho già detto in una mia sostanziosa recensione del libro di Veronesi. Le confesso intanto (ed è una confessione rara) che io leggo con le orecchie. E mi capita di sentire le stonature, le forzature, i cambi di tono ingiustificati, le corrività per piacere al grosso pubblico, ecc.
Il romanzo di Veronesi stona fin alle prime pagine, quando il protagonista nell’atto di annegare (si badi, annegare) comincia a fare paragoni con non ricordo più che attori o attrici. Lei ce lo vede uno che mentre affoga pensa: «Toh, proprio come quel tale nel film Titanic»? Oppure, lottando con una donna che sta per annegare, esclama: «Perbacco, sembra Marilyn»? È quello che ha fatto Veronesi. E fosse finita qui. A un certo punto si piazza in una macchina e non si muove più. E nella macchina riceve parenti, amici, manager, passanti, ecc.
Siamo alla macchina-salotto, o alla macchina bar. È di un grottesco involontario da manuale, specie quando il protagonista rivede la donna che ha salvato dall’annegamento. E fosse finita qui. Quando la figlia lo saluta dalla finestra della scuola per dirgli tutto quello che lei, Simonelli, dice, siamo in piena Liala. Un sentimentalismo privo di qualsiasi supporto strutturale. E fosse finita qui. Non ha notato che lo stile è andante come quello di un cronista frettoloso? Io si. Mi spiace, ho letto un altro romanzo.Giuseppe Bonura
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