[Report] Officina di ottobre 2024
Con l’Officina di ottobre principia il nuovo anno delle Officine di BombaCarta, dedicate al tema della ricerca dell’invisibile, cioè di quelle cose sottratte alla vista, ora perché troppo lontane ora perché troppo vicine, ora perché strutturalmente immateriali ora perché nascoste. “Cercare l’invisibile” significa cercare quello che, pur non vedendolo, sappiamo che c’è. Il tema dell’Officina di ottobre coincide con quello dell’anno e ne costituisce sostanziale introduzione.
Greta
Per iniziare a parlare delle cose invisibili Greta ha portato una pagina da La settimana enigmistica intitolata L’uomo invisibile: nell’immagine di un cantiere al lavoro ognuno doveva cercare quell’indizio che svelava la presenza di Astolfo, l’uomo invisibile. Ci siamo fatti aiutare dalla vista e dalla logica.
Abbiamo lasciato più spazio alla fantasia con una citazione di Ray Bradbury, da Cronache marziane: lo scrittore descrive il Tempo che scorre immaginando quale odore, suono, aspetto e consistenza esso possa avere.
Valerio
In un legame ideale tra il tema dello scorso anno (“il corpo”) e quello attuale (“cercare l’invisibile”), sembra opportuno principiare dalla figura dell’uomo invisibile, geniale invenzione dello scrittore H.G. Wells, variamente declinata da cinema e letteratura con alterne fortune. Nella maggioranza di queste rappresentazioni, l’uomo invisibile diviene l’antagonista della storia e saremmo portati a ritenere, almeno in un primo momento, che tale malvagità discenda dalla tentazione di utilizzare la propria capacità di non essere visto per commettere crimini privi di testimoni.
Una differente lettura viene offerta da un raccontino di Gianni Rodari, intitolato Tonino l’invisibile, nel quale un ragazzo, per evitare l’interrogazione scolastica, diviene magicamente e con sua stessa sorpresa invisibile. Inizialmente felice di sfruttare dolosamente tale abilità, ben presto è costretto a ricredersi quando si rende conto che la condizione di invisibilità lo sottrae agli affetti. Forse la malvagità degli uomini invisibili è tutta lì, nella solitudine che deriva dal non poter essere visti.
– Non voglio più essere invisibile. – si lamentava Tonino con il cuore in pezzi. – Voglio che mio padre mi veda, che mia madre mi sgridi, che il maestro mi interroghi! Voglio giocare con i miei amici! È brutto essere invisibili, è brutto stare soli…
La medesima solitudine accompagna chi è in grado di “vedere l’invisibile”, ossia di trovare quei nessi causali nascosti all’occhio comune, eppure esistenti. Si tratta, ad esempio, dei detective che, a partire dalle tracce visibili di un fatto (indizi), riescono a risalire a ritroso alle conseguenze, a quelle azioni celate nel passato.
E se i grandi ragionatori sono spesso maniaci è altrettanto vero che i maniaci sono spesso grandi ragionatori (…).
Tutto si dice di un pazzo, ma non che egli agisca senza causa. Se si potesse parlare di azioni umane senza causa, esse sarebbero, se mai, certe piccole azioni che un uomo sano compie senza annettervi importanza: fischiettare camminando, colpire l’erba col bastone, darsi pedate sui garretti o fregarsi le mani. (…) Il pazzo troverebbe un significato cospiratorio in queste attività a vuoto. Battere l’erba sarebbe, per lui, un attentato alla proprietà privata, colpirsi le gambe sarebbe un segnale fatto a un complice. (…) Essi connettono una cosa con l’altra sopra un piano più complicato di un labirinto.
La differenza tra il detective geniale e il pazzo è tutta qui: entrambi “vedono” nessi invisibili agli altri, ma nel primo caso si tratta di nessi esistenti, nel secondo no. Ed è purtroppo una distinzione che sembrerebbe potersi cogliere con certezza solo ex post facto.
Margherita
L’intervento, dal titolo “Scomparsi”, parte dalla vicenda dei desaparecidos – migliaia di uomini, donne e bambini rapiti, torturati e uccisi dai regimi dittatoriali in Cile e Argentina tra gli anni ‘70 e ‘80, per la maggior parte mai ritrovati. La ricerca di queste persone scomparse – di fatto rese invisibili – viene portata avanti dalle cosiddette Madri di Plaza de Mayo, che si riuniscono – ancora oggi – in questa piazza di Buenos Aires per chiedere verità e giustizia per questi figli mai rientrati a casa. Tra le usanze di questo movimento c’è il gesto di danzare da sole con una foto del proprio scomparso sul petto. A questo si ispira la canzone che Sting dedica al movimento, “They dance alone” del 1987.
Una seconda parte dell’intervento è dedicata al ruolo fondamentale del testimone in quanto persona che vede/ha visto qualcosa di non più visibile agli altri e che restituisce corpo a questi eventi attraverso il proprio racconto.
Un esempio brutale in merito, è la prima scena della serie TV Hunters, in cui una sopravvissuta alle brutalità delle SS durante la seconda guerra mondiale si ritrova davanti ad uno dei suoi carnefici, soprannominato “il macellaio” – ormai trasferitosi negli Stati Uniti con una nuova identità e nascosto in bella vista da ormai trent’anni. La donna è l’unica a conoscere la vera identità dell’uomo, in quanto testimone diretta dei suoi crimini e dunque riporta alla luce qualcosa di invisibile agli occhi delle altre persone presenti. La scena culmina con una violenza estrema ad opera del “macellaio”, che si toglie la maschera del tranquillo americano medio e rivela tutta la mostruosità che aveva nascosto fino a quel momento.
L’intervento si conclude con uno spunto di riflessione: ad oggi ci rimane ben poco di nascosto o invisibile di ciò che accade nel mondo – grazie alle nuove tecnologie e ai media – e dunque assistiamo ogni giorno a guerre, violazioni dei diritti umani, ingiustizie, anche semplicemente aprendo un social network.
Un esempio in questo senso sono le immagini che ci arrivano dalla striscia di Gaza, tanto dai media ufficiali quanto dai civili, che il semplice possedere uno smartphone trasforma in fonti di testimonianza diretta. Ciò vale per le inchieste di Bisan Owda – pubblicate inizialmente sul suo profilo instagram come una sorta di video diario e ora candidate ad un Emmy Award – e per il profilo social “Mohammed e Omar Show”, in cui i due ragazzi pubblicano brevi video dal titolo “sharing our daily routine in a war zone” (la nostra quotidianità in una zona di guerra).
Insomma, se oggi – diversamente dal passato – abbiamo gli strumenti per essere un po’ tutti testimoni, se tutti possiamo vedere quello che accade, rimane la differenza tra vedere e agire. Potremmo – e dovremmo – fare di più in certe situazioni?
Cristiano
Ci sono cose che non sono visibili ai nostri occhi solo perché fisicamente inaccessibili; eppure, se le potessimo vedere, ci sembrerebbero familiari. Per esempio, un tramonto su Marte.
Ci sono altre cose che sono invece sotto i nostri occhi ma non possiamo vederle. Sulla base di questo presupposto ci siamo divertiti per una mezz’ora con una fotocamera a infrarossi guardando ciò che ci è intorno a una lunghezza d’onda che ci sarebbe naturalmente preclusa.
È stato poi affrontato il tema dell’invisibilità – sempre attraverso la fotografia a infrarossi – su un altro piano, questa volta più simbolico. Il lavoro di Richard Mosse in Congo vuole portare alla luce la non-visibilità di un conflitto che è tale perché non interessa, perché avviene in una parte “inosservata” del nostro pianeta.
Dice Mosse:
5.4 million people have died or been killed of war-related causes since 1998. And that’s a ton of people. But we don’t really hear anything about this ongoing humanitarian disaster. So in that sense, it’s this hidden, unseen problem, this unseen conflict.
E sulla scelta di questo particolare mezzo di rappresentazione:
The primal importance to me is beauty. Beauty is one of the main lines to make people feel something. It’s the sharpest tool in the box. And if you’re trying to make people feel something, if you’re able to make it beautiful, then they’ll sit up and listen.
And often, if you make something that’s derived from human suffering or from war, if you represent that with beauty, and sometimes it is beautiful, that creates an ethical problem in the viewer’s mind. And so then they’re confused and angry and disoriented. And this is great, because you’ve got them to actually think about the act of perception and how this imagery is produced and consumed.
In that respect, it’s really about using the potential of contemporary art, the faculty of the sublime, the ability to make visible what’s beyond the limits of language, and to bring that to the ethical burden of bearing witnesses to the documentary.
Luca
Tae-suk (Ferro 3 – La casa vuota, 2004, Kim Ki-duk) è un giovane vagabondo che ha l’abitudine di introdursi nella case vuote – quando i proprietari sono assenti – e trascorrervi qualche giorno come se ne fosse il padrone, con cura ed attenzione per la casa e per le cose che vi trova, per poi lasciare tutto in perfetto ordine. Un giorno si accorge di non essere solo in casa e conosce Sun-hwa, una giovane sposa infelice del suo matrimonio. Tentata una fuga insieme, Tae-suk finisce in prigione. Là decide di imparare a come non farsi vedere, a come rendersi invisibile, per tornare dalla sua Sun-hwa e convivere con lei e, non visto, col suo ignaro marito.
Abbiamo visto due scene.
- In prigione, dove Tae-suk affina la sua illusione di invisibilità, celandosi alla vista, sfruttando i limiti del campo visivo altrui, il silenzio e le ombre e beffandosi di un violento secondino.
- In casa di Sun-hwa, dove la presenza di Tae-suk durante un pranzo è visibile solo allo spettatore ed alla ragazza, mentre per il marito è completamente impercettibile, tanta l’abilità di Tae-suk.
Kim Ki-duk porta questo artificio all’inverosimile, come se fosse, in realtà, l’unica soluzione possibile alla storia d’amore dei due protagonisti. Il personaggio di Tae-suk oscilla tra presenza ed assenza, tra gesti e silenzi: prima non si faceva vedere e le sue tracce erano “invisibili”, alla fine sceglie di esserlo sempre, almeno per chiunque tranne che per Sun-hwa in una oscillazione continua.
Quando, per un suo incauto desiderio il Re dei Goblin (David Bowie, Labyrinth – Dove tutto è possibile, 1986, Jim Henson) rapisce il suo fratellastro in fasce, Sarah (Jennifer Connelly) è costretta ad attraversare un grottesco labirinto per raggiungere il castello dei Goblin dove Toby è tenuto prigioniero.
Nella scena proposta durante l’Officina, Sarah si trova all’ingresso del labirinto ma questo sembra essere costituito da un unico grande viale con mura altissime, senza aperture, curve o diramazioni e sembra estendersi all’infinito. È un piccolo verme parlante ad aiutare Sarah, dicendole che un’apertura si trova proprio alle sue spalle, Sarah deve solo entrarvi. Incredula la ragazza cammina verso il muro fino a che si rende conto che un’apertura effettivamente c’è, sebbene non visibile… guardando con poca attenzione.
Quando Sarah cammina e scompare dietro la parete anche per noi l’illusione ottica scompare e, sebbene la scenografia (l’architettura) sia rimasta invariata, riusciamo a vedervi qualcosa di diverso ed a distinguere il passaggio.
Valeria
Perché cerchiamo l’invisibile? A volte semplicemente perché non vedere, non sapere ci spaventa più di ciò che potrebbe aspettarci dall’altra parte. È questo il caso per il protagonista della poesia di William Hughes Mearns, Antigonish.
Yesterday, upon the stair,
I met a man who wasn’t there!
He wasn’t there again today,
Oh how, I wish he’d go away!
When I came home last night at three,
The man was waiting there for me
But when I looked around the hall,
I couldn’t see him there at all!
Go away, go away, don’t you come back any more!
Go away, go away, and please don’t slam the door…
Last night I saw upon the stair,
A little man who wasn’t there
He wasn’t there again today
Oh, how I wish he’d go away….Ieri, sulle scale,
Ho incontrato un uomo che non c’era!
Non c’era neanche oggi,
Oh, come vorrei che se ne andasse!Quando sono tornato a casa ieri sera alle tre,
L’uomo mi stava aspettando
Ma quando ho guardato intorno nella sala,
Non riuscivo a vederlo!
Vattene, vattene, non tornare più!
Vattene, vattene, e per favore non sbattere la porta…Ieri sera ho visto sulla scala,
Un ometto che non c’era,
Non c’era neanche oggi
Oh, come vorrei che se ne andasse…
Cosa succede però se ciò che stiamo cercando di svelare è peggio dell’ignoto che ci spaventava in principio?
Nella storia (ispirata dalla poesia precedente), presa e tradotta dall’episodio 85 del podcast horror The Magnus Archives, è la ricerca stessa dell’invisibile a condannare il protagonista. Il narratore riesce a trovare e conoscere l’ignoto, ma così facendo finisce per perdere sé stesso.
Non lo incontrai sulle scale neanch’io. Il tappeto non si piegò sotto il peso del suo corpo tondo e soffice, e ricordo distintamente l’assenza di un cigolio quando i suoi piedi premettero sul quinto gradino vuoto. Rise, ma non c’era umorismo nella sua risata, perché… allora avrebbe dovuto rompere il silenzio. Nella poesia, ho sempre immaginato una figura trasparente, assente in vita e corpo, ma visibile. Ma non potevo vedere quest’uomo. Ovviamente non potevo. Non potevo vederlo o sentirlo o parlargli. Perché… non c’era nessuno. La scala era vuota, quando allungò il braccio per indicarmi di avvicinarmi.
[…]
Per ovvie ragioni non posso descriverlo, posso a malapena descrivere la sua assenza. Potrei provare a dire che la sua… Ipotesi era alta e larga. Concettualmente, avrebbe potuto avere braccia che si allungavano da un corpo soffice, con dita tozze che non stringevano il corrimano con abbastanza forza da scheggiarlo. Se avesse avuto una faccia, sarebbe stata insignificante, con una bocca piccola e carnosa, che non si piegava del tutto in un sorriso.
Non parlò, quindi non potei udire l’offerta di raggiungerlo sulle scale. Ma accettai. Non so se volevo solo disperatamente salire e andare a letto, o se ero… Generalmente curioso di cosa quest’uomo aveva da offrirmi, quando non aveva neanche l’occorrente per esistere. Quindi poggiai il mio piede sul primo gradino e iniziai a salire. Se fosse stato lì sarebbe stato difficile passare oltre la sua massa, ma visto com’era continuai a salire senza problemi.
La scala della mia casa non era lunga, e non era ripida, e andava su dritta fino al pianerottolo con una sola curva a destra. Non era una scala a spirale, quindi dopo aver camminato giù per quel vortice per quasi mezz’ora, sapevo che non poteva essere la mia. L’uomo non era venuto con me, ovviamente, quindi non potevo chiedergli come faceva a rimanere sempre tre passi avanti a me senza mai muovere le sue gambe.
Camminai e camminai. E poi non camminai più, e così andai molto più veloce. I muri non apparivano più come quelli della mia casa, perché non ce ne erano, quindi era difficile dire che aspetto avessero. In fine devo aver raggiunto il pianerottolo, perché mi sono svegliato la mattina successiva nel mio letto, e il mio letto era alla fine della scala che si trovava lì, quindi assumo che fosse anche alla fine di quella che non c’era.
I giorni successivi sono difficili da ricordare per me, perché sono accaduti, e ricordi genuini sfuggono alla mia mente come visti attraverso vetro offuscato. Ma l’uomo non tornò. Non tornò ogni giorno. Non tornò finché non feci… Un orribile sbaglio. Lo chiamai. Stetti sul pianerottolo e gli urlai di andarsene. Gli chiesi se fosse lì. Esigetti che si mostrasse. Tutto profondamente impossibile, ovviamente. Non stavo urlando a nessuno se non a me stesso, e quindi fu nella mia mente che quelle maledizioni e preghiere scavarono e si innestarono. Sicché non era lì, non ho modo di dire quanti denti erano in mostra quando mi sorrise.
Dopo questo, divenne difficile dire dove lui mancava di esistere, e più semplice dire dove finivo io. Alcuni mi dimenticavano, ma mi andava bene, perché solo alle persone reali importa che ci si ricordi di loro. E non ero più tra loro. Avevo giornate intere in cui mancavo di esistere, una sensazione così completamente aliena che ero grato di non avere uno stomaco dal quale vomitare. E mentre esistevo sempre di meno, l’uomo smise di esistere sempre di meno… finché… Mi ricordo la prima volta in cui fu davvero in casa mia, e non desiderai altro se non avere delle mani per poterlo strozzare.
[…] Alla fine, l’uomo che non aveva mai messo piede sulla mia scala divenne reale abbastanza da avermi fatto questo. Esisteva così pienamente che riuscì finalmente a ridere per la gioia di essere. Mi cercò con lo sguardo, ma ovviamente non ero lì, e nella mia assenza vidi la realizzazione sul suo viso che, in realtà, chiunque fosse stato, era morto decenni prima. E ora era nella realtà. Provò a urlare, ma la sua gola si decompose intorno al suono, interrompendolo in una palude di carne marcia e cedevoli, friabili ossa. E mentre lo osservavo dalla scala vuota, voletti ridergli in faccia. Ma non potevo, perché semplicemente non ero lì.
Qualcosa di simile succede alla fine del racconto L’orrore di Dunwich di H.P. Lovecraft. Curtis Whateley, spinto da pura curiosità, vede l’invisibile e impazzisce.
Andò a finire che i tre uomini venuti da Arkham — l’anziano dottor Armitage dalla barba bianca, il tarchiato professor Rice con i capelli grigi e lo snello e giovanile dottor Morgan — s’inerpicarono da soli sulla ripida collina. Dopo aver pazientemente spiegato la messa a fuoco delle lenti e l’uso dello strumento, lasciarono il binocolo al gruppo di contadini spaventati che rimase sulla strada; e, mentre salivano, erano attentamente osservati da coloro che se ne servivano a turno. Era una china impervia, e Armitage dovette essere aiutato più d’una volta. Molto più sopra dello sparuto gruppetto che arrancava faticosamente, la grande scia ondeggiava piano, come se il suo infernale artefice strisciasse con la lentezza d’una lumaca. Ma era evidente che gli inseguitori stavano guadagnando terreno.
Curtis Whateley – del ramo non decaduto – osservava con il binocolo quando i tre uomini sulla collina deviarono nettamente dalla scia che seguivano con circospezione. Comunicò alla gente assiepata intorno a lui che evidentemente stavano cercando di raggiungere un’altura secondaria che dominava il solco, molto più avanti rispetto al punto dove gli arbusti venivano schiacciati in quel momento. Aveva ragione. E il gruppetto fu visto guadagnare il poggio poco dopo che l’invisibile abominio lo aveva oltrepassato. Poi Wesley Corey, che aveva strappato il binocolo a Curtis Whateley, gridò che Armitage stava mettendo a punto lo spruzzatore retto da Rice, e che di sicuro stava per succedere qualcosa. I contadini si agitarono inquieti, ricordando che lo spruzzatore avrebbe dovuto rendere visibile, per un attimo, il mostro sconosciuto. Due o tre uomini chiusero gli occhi, ma Curtis Whateley riprese il binocolo e ne aggiustò con precisione le lenti. Vide che Rice, dall’altura elevata alle spalle dell’entità, si era venuto a trovare in posizione ottimale per spruzzare la polvere portentosa. L’effetto fu stupefacente. Quelli senza binocolo intravidero per un istante una nuvola grigia – una nuvola delle dimensioni di un edificio piuttosto grande – sulla sommità della collina. Curtis, che aveva il binocolo, lo lasciò cadere con un grido strozzato nel fango della strada, che era alto fino alle caviglie. Barcollò e sarebbe caduto a terra se altri due o tre non l’avessero sorretto prontamente. Per un po’, non fece che gemere sommessamente: «Oh, oh, gran Dio… quella cosa, quella cosa…».