D.F. Wallace: la rincorsa di un “molto di più di questo”

D.F. Wallace Una domanda che mi ha sempre messo in imbarazzo: “cosa cerchi tu nella letteratura? cosa cerchi nella letteratura oggi?”.
Ecco, credo di aver trovato una risposta: cerco cose come “Caro vecchio neon” (dalla raccolta di romanzi brevi di D. F. Wallace “Oblio”, Einaudi 2006).

Il luogo comune con cui spesso si descrive Wallace è: un autore colto e di straordinario virtuosismo ma espressione di un talento fine a se stesso. Un autore che cela, dietro lo spettacolo pirotecnico che anima le sue pagine, il fatto di non avere nulla da dire.
La tesi a me pare assurda, perché la straordinaria “potenza di fuoco” intellettuale di cui dispone l’autore di quello straordinario dono per le menti contemporanee che è “Infinite Jest”, mi sembra invece costantemente al servizio di una disperata ricerca di autenticità e condivisione. L’impressione di artificio è dovuta alla assoluta onestà e profondità con cui la ricerca di autenticità e condivisione è portata avanti: senza trucchi e senza sconti. Wallace non cede ai simulacri di cui ci circondiamo e non accetta nessuna “riduzione” o “limitazione” dell’universo infinito in cui ci è capitato di nascere e che ciascuno si porta dentro.

Le primissime parole di “Caro vecchio neon” sono: “Io sono un impostore”, e in tutto il romanzo si svolge la disperata ricerca di autenticità del protagonista.
Seguiamo la voce narrante in tutte le sue assortite esperienze, dagli amori adolescenziali alla vita professionale. Wallace procede nella costruzione di correlativi geografici, biografici e materiali del “cuore” dei personaggi narrati, come farebbe un autore “normale”. Ma mentre un altro autore si fermerebbe qui e si accontenterebbe di aver costruito un personaggio tridimensionale e credibile, Wallace va oltre. E lo fa per rispetto verso “l’uomo”: l’unico modo che abbiamo per rimanere vivi è onorare le infinite possibilità che ci portiamo dentro e distruggere incessantemente tutti i simulacri da cui crediamo di essere rappresentati, senza fermarci mai.
L’accettazione della propria necessaria condizione di “impostori” è l’unica forma di autenticità possibile, la matrice del nostro libero arbitrio. Chiunque crede di essere arrivato ad una soddisfacente conoscenza di se stesso (e di rappresentazione di se stesso all’esterno) rinuncia ad una vitale relazione con il motore inesauribile che ci genera ogni istante ed è –sostanzialmente – morto. Ma Wallace ha un cuore troppo grande per lasciarsi chiudere in una gabbia del genere.

Wallace segue un percorso molto simile a quello che si può trovare in alcuni esistenzialisti francesi del secolo scorso (Sartre, Camus) ma esattamente rovesciato al contrario. Mentre il protagonista de “La caduta” vive un percorso di disillusione che lo porta a scoprire la propria estraneità, la paralisi, gli abissi nel “nulla”, la frustrazione ed il conseguente suicidio del protagonista di “Caro vecchio neon” nasce dalla percezione di un “troppo” incontenibile. Dove gli esistenzialisti trovavano il “nulla” Wallace scopre un “troppo” che non va svilito in forme e nomi statici.

Nella prima pagina di “Caro vecchio neon” una ragazza ci viene presentata come “ragazza pompom, probabilmente la numero due o tre fra le ragazze più desiderabili quell’anno alle medie”, ma il narratore si preoccupa subito di precisare che “lei era molto più di questo”. Tutta la ricchezza della lingua di Wallace (i rimandi, i riferimenti interdisciplinari, le acrobazie, i periodo lunghi pagine, le note) è prodotta da una genuina e spudorata rincorsa di un “molto di più” che continuamente ci sfugge, utilizzando esclusivamente le armi della comunicazione fatta con le parole.

“[…] il significato dell’espressione la mia vita non si avvicina neanche lontanamente a quello che crediamo di dire quando diciamo la mia vita. Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o più significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso.” (D.F. Wallace, da “Caro vecchio Neon”).

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  1. ndr ha detto:

    Wallace. Che bel pezzo. Sto leggendo Infinite Jest, con calma. Oblio non l’ho letto. Ancora. è una rincorsa votata al fallimento, quella di Wallace, un fallimento di cui si è consapevoli ma a cui non si può, al tempo stesso, arrendersi. un fallimento da cui si è dipendenti. non so.
    ndr

  2. Maurizio Cotrona ha detto:

    sì, è una rincorsa destinata alla sconfitta… ma necessaria.

  3. Paola Padula ha detto:

    “L’accettazione della propria necessaria condizione di “impostori” è l’unica forma di autenticità possibile, la matrice del nostro libero arbitrio. Chiunque crede di essere arrivato ad una soddisfacente conoscenza di se stesso (e di rappresentazione di se stesso all’esterno) rinuncia ad una vitale relazione con il motore inesauribile che ci genera ogni istante ed è –sostanzialmente – morto”.
    Onesto ed asciutto, con la consueta, disarmante antipatia verso l’elemosina dei consensi, ma solo serio nel difendere ciò in cui credi. Questo capoverso, è, a mio avviso, un assunto perfetto di come dovrebbe muoversi l’intelligenza umana. Sentirsi impostori sempre, non significa flagellarsi o non amarsi, anzi. Ci ricorda ogni giorno che si può essere davvero migliori, dentro, per poter contenere l’incontenibile.

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